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Juntos - una storia universale

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Enrique Ubieta GómezFrancesca PaciDiana BagnoliAndrea GuermaniJuntos una storia universale

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Juntos una storia universaleEnrique Ubieta GómezFrancesca PaciDiana BagnoliAndrea Guermani

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Juntosè un esperimento di libro multimediale, fatto di diversi linguaggi, con diversi autori. Enrique Ubieta Gómez e Francesca Paci ci hanno messo le loro penne, Diana Bagnoli e Andrea Guermani le loro macchine fotogra che, Makkox la sua preziosa matita, la Road Television le sue cineprese: tutti per descrivere da diverse angolazioni questa storia straordinaria.Per godere appieno di questa esperienza, inquadra il QR code e naviga attraverso il libro, le immagini e il video. La fruizione online è gratuita perché questa storia universale merita la massima diffusione.Una parte del ricavato del libro e tutte le donazioni che saranno raccolte attraverso la piattaforma andranno a sostenere la ricerca scienti ca cubana sui vaccini anticovid a cominciare dalla collaborazione fra Istituto Finlay de La Habana e la Clinica Universitaria per le malattie infettive Amedeo di Savoia di Torino.in copertina disegno diMakkoxtesti diEnrique Ubieta GómezFrancesca Pacifotogra e diDiana Bagnoli/National Geographic SocietyAndrea Guermanie contributi fotogra ci diDaniele SolavaggioneMichele CurtoproduzioneRoad Televisionin collaborazione conIl lavoro fotogra co di Diana Bagnoli è stato sostenutodalla National Geographic Society - Emergency FundISBN 979-12-5467-010-1© 2021 R E via Sant’Agostino, 12 - 10122 Ttel. 011.50.87.282e-mail: robinedizioni@robinedizioni.itwww.robinedizioni.it

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In memoria di Léster Cabrera Chávez, Graciliano Díaz Bartolo e Leonardo Baños Carmona, medici e infermieri cubani impegnati nella lotta contro il covid nelle Brigate Henry Reeve di Torino e Crema

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5Perché e perché oraM CJuntos è il racconto per immagini e parole di una storia, nata circa un anno fa, cresciuta e resa concreta dall’arrivo a Torino di un contingente medico formatosi dall’altra parte del mondo per aiutarci a combattere l’epidemia di -.Una storia che si concretizza ora in un volume e in attività digi-tali che, nel raccontarla, la consegnano alla memoria.Tante cose sono successe in questo difcile periodo che stiamo vivendo, combattendo ogni giorno un virus che ci ha costretti a grandi cambiamenti e che ce ne imporrà molti altri. Un virus che ha ucciso molte persone, tra cui il mio fraterno amico Corrado, talmente tante da essere quotidianamente rac-contate con un numero e raramente con un nome o una storia.Ad aprile 2020 pochi in Italia conoscevano davvero la Brigada internazionale Henry Reeve o meglio, il Contingente Internazio-nale di Medici Specializzati in Disastri ed Epidemie Gravi Henry Reeve; io stesso avevo sentito che contingenti sanitari cubani era-no stati al centro di operazioni umanitarie in situazioni dram-matiche, dall’Ebola in Liberia ad Haiti sconvolta dal terremoto e dal colera, mostrando la capacità di intervenire in modo rapido ed efcace ovunque nel mondo, ma non ne sapevo molto di più.Notizie lontane, tragedie accadute in Paesi spesso poverissi-mi e distanti da noi qui, in Italia, a Torino, nel cuore della Vec-chia Europa.Quando, superato lo choc per quanto stava accadendo, è risul-tato chiaro che il gesto umanitario e professionale dei medici cubani sarebbe stato d’aiuto, abbiamo coinvolto l’Ambasciatore di Cuba in Italia, José Carlos Rodríguez Ruiz, che avevamo incon-trato in occasione del cinquecentenario della città de L’Avana.La risposta è stata immediata: senza esitazioni i medici cuba-ni c’erano, erano pronti a partire e a farlo come di consueto a

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6PERCHÉ E PERCHÉ ORAtitolo volontario, spesati dal nostro governo solo per le necessi-tà di vitto e alloggio.Una serie di sforzi congiunti e coordinati, a vari livelli, ha per-messo di superare tutti gli ostacoli e gli 8.000 km che ci divide-vano e organizzare il trasporto aereo che ha portato a Torino la Brigada di medici e sanitari cubani. Nel frattempo, le OGR, Ofcine Grandi Riparazioni, struttu-ra post-industriale dal grande fascino architettonico e culturale di Torino, erano state adeguate e attrezzate per trasformarsi rapi-damente in un reparto di terapia subintensiva.Riuscire ora a restituire, attraverso le voci, i testi e le imma-gini, lo spirito che durante quei cento giorni abbiamo percepi-to negli spazi delle OGR trasformate in luogo di cura, sarebbe davvero un grande risultato. Riuscire a riportare tra queste pagi-ne anche solo una piccola parte di quella umanità che il contin-gente dei medici cubani e i loro colleghi italiani hanno restituito alle persone ammalate, signicherebbe aver raggiunto lo scopo.Durante quei cento giorni ho visitato le OGR in tre occasio-ni e in ognuna ho vissuto emozioni molto forti. Mi sono sentito disorientato e meravigliato di fronte all’altruismo, all’abnegazio-ne di queste donne e uomini, italiani e cubani, che in quel perio-do hanno lavorato insieme, quasi come se si conoscessero da sem-pre, testimoniando quei valori profondi che l’uomo sa esprimere, ma che purtroppo talvolta dimentica.Non è il mio ruolo entrare nei dettagli, ma le 170 vite salvate vanno oltre il mero numero.Ecco perché ora. Ecco perché Lavazza ha deciso di supporta-re questa iniziativa.È il momento giusto per dare forma a questo libro che riba-disce e rinforza il legame che Lavazza ha sia con Torino, la città delle sue radici, sia con Cuba, con cui da anni collabora in pro-getti di sostenibilità ambientale, economica e sociale nel mon-do caffeicolo.Un legame che le immagini di Diana Bagnoli e Andrea Guer-mani restituiscono con forza e che le parole di Francesca Paci accompagnano con passione. Un racconto che la penna di

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7PERCHÉ E PERCHÉ ORAEnrique Ubieta, testimone e narratore d’eccezione, ci consegna. Una storia in cui un artista come Makkox non ha avuto alcun indugio a ritrovarsi. Perché questo è stato: un momento di umanità condivisa. Mario CeruttiDirettore Sostenibilità Gruppo Lavazza

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11Voyager 3: Batas Blancas Universali!M C«Questo è un regalo di un piccolo e distante pianeta, un fram-mento dei nostri suoni, della nostra scienza, delle nostre immagini, della nostra musica, dei nostri pensieri e senti-menti. Stiamo cercando di sopravvivere ai nostri tempi, così da poter vive-re no ai vostri.»Con queste poche righe il presidente degli Stati Uniti Jimmy Car-ter presentava il Voyager Golden Record un disco per grammofono inse-rito nelle due sonde spaziali del programma Voyager, lanciato nel 1977, contenente suoni e immagini selezionate al ne di racconta-re la Terra per qualunque forma di vita extraterrestre o per la spe-cie umana del futuro. Questo anche se la sonda Voyager impiegherà 40.000 anni per arrivare nelle vicinanze di un’altra stella.Bene, se oggi potesse partire un nuovo Voyager, con lo sforzo di tutta l’umanità, certamente fra le prime immagini da mostrare ad altre forme di vita intelligenti o ai nostri discendenti ci sarebbe l’im-magine delle batas blancas della Brigada Henry Reeve, delle migliaia di uomini e donne, medici e paramedici che senza indugio nè timore, grazie alla loro formazione, cultura e al pensiero della Rivoluzione hanno volontariamente lasciato il loro Paese per andare in tutto il mondo e battersi con altri colleghi. Questo contro un nemico altret-tanto lontano, innito perché piccolo e sconosciuto: il -.Non dimenticherò facilmente quei 3 mesi intensissimi: per mol-ti il  è stato un momento fuori dal tempo, alieno alle nostre vite, per me segna uno spartiacque.Mesi fa mai avrei pensato a una pandemia come lo scenario idea-le per mostrare a tutti la Cuba che conosco, un esperimento imper-fetto ma reale di altruismo e umanità, loro direbbero un esperimen-to di internazionalismo.Ad inizio marzo 2020 l’Associazione di Amicizia Italia-Cuba e il Coordinamento dei Cubani residenti in Italia (CONACI) aprirono

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12VOYAGER 3: BATAS BLANCAS UNIVERSALI! un dibattito pubblico sulla possibilità di richiedere aiuto a Cuba, a partire dalla sua tradizione di cooperazione medica con l’invio di sanitari per il -. Mi sembra così lontano quel 19 marzo in cui sentendo parlare di una possibile Brigata di medici cubani in arrivo a Crema grazie al lavoro instancabile dell’Ambasciata di Cuba in Italia, mi misi in contatto attraverso il consigliere regionale Marco Grimaldi, con il presidente della Regione Piemonte Alberto Cirio, proponendogli di fare altrettanto. Nel predisporre gli appunti per la lettera con la quale si sarebbe poi ufcializzato la richiesta all’ambasciatore scri-vevo: “Conosciamo la qualità del vostro sistema di salute pubblica e il valore dei vostri medici e la tradizione di promuovere azioni di solidarietà internazionale. Ammiriamo il concetto di condividere tutto quel che si ha, non solo ciò che resta”. Quelle parole sono poco a poco diventate patrimonio della comunità della mia Città, cominciando proprio dai nostri rappre-sentanti istituzionali.Molto importante per l’arrivo dei medici, infatti, è stato il lega-me costruito fra Torino e L’Avana per il Cinquecentenario della Capitale di Cuba, un ponte che ogni giorno diviene più solido.Anche grazie al coraggio e alle scelte istituzionali della sin-daca Chiara Appendino e del presidente della Regione Piemon-te Alberto Cirio, all’impegno alla dedizione e all’organizzazio-ne dell’ASL Città di Torino capitanata dal Dott. Carlo Picco, così come la partecipazione di Lavazza e Fondazione Specchio dei Tempi che hanno letteralmente fatto volare l’iniziativa.Per la prima volta medici di un Paese in via di sviluppo come Cuba andavano a prestare servizio nel cosiddetto “primo mon-do”, nel cuore di una grande città, proprio in quella che fu la capitale d’Italia: Torino.Far partire migliaia di sanitari in tutto il mondo proprio nel bel mezzo della pandemia, a marzo 2020 nei giorni in cui il cielo si chiudeva sulla testa, il mondo stava con il ato sospeso e negli occhi c’era l’immagine dei camion militari che lasciavano Berga-mo carichi di salme, non era un gesto scontato.Per questo se dovessi mostrare un esempio di umanità con-

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13VOYAGER 3: BATAS BLANCAS UNIVERSALI! divisa, una storia universale, non avrei dubbi, mostrerei questo libro che racconta di donne e uomini, sanitari italiani e cubani insieme, capaci di curare facendo sentire il sorriso attraverso la mascherina.Io con loro ho potuto vedere la forza dell’agire, l’universalità di un messaggio in grado di spiegare con i fatti alla mia comunità e alla mia città il concetto che la Patria è l’Umanità.Accompagnarli è stato un onore, un privilegio vissuto insieme ai giovani volontari di AICEC e di tante altre realtà. In quei tre mesi siamo cresciuti organizzando, traducendo, condividendo la fatica della tuta bianca, come aspiranti e impacciati astronauti restando sempre al loro anco, nell’universo della zona rossa dell’Ospedale -OGR Asl Città di Torino.Come tutte le crisi, il - è una sda per le persone, per le comunità, per i sistemi politici, per l’umanità intera.I medici della Brigada Henry Reeve ci hanno mostrato un cammino.Il loro sforzo è il risultato del pensiero strategico di Cuba, una pic-cola isola di 11 milioni di persone con il doppio dei medici ogni mil-le abitanti rispetto all’Italia e il triplo della media dei Paesi del G20.Un piccolo Stato, Cuba, bloqueado da 60 anni da un embargo ingiu-sto, ha sviluppato a oggi, con la propria ricerca pubblica, tre vacci-ni approvati e due candidati vaccinali, un’isola che sta vaccinando con i soli propri sforzi la sua popolazione e già si è resa disponibile a condividerli con i Paesi che ne hanno bisogno. Vaccini come patrimonio pubblico, economici, riproducibili, da condividere, per arrivare lì dove il vaccino non sta arrivando: a oggi pochissimi vaccini per il  sono andati ai Paesi in via di sviluppo.L’umanità ha avuto la forza di creare vaccini contro il - in 12 mesi, mai così velocemente nella storia, ma non è capace di condividerli.Questo è ingiusto, insensato, pericoloso. Perché se c’è una cosa che questa pandemia ci ha insegnato, se c’è una cosa che la Brigada Henry Reeve ci ha trasmesso e che in que-sto libro viene raccontata, disegnata, immortalata è che o se ne esce insieme o l’umanità non riuscirà a uscirne.Ci vogliono gesti umani e un pensiero universale: Voyager 3.

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15Cubanos en Turin: una storia d’amoreE U G

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19CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE Non sono un osservatore esterno. Sono stato il membro N.38° della Brigada Henry Reeve di Cuba. Molti componen-ti della Brigada non li ho conosciuti a Torino o durante il volo da L’Avana. Ho condiviso con loro precedenti esperienze in varie parti del mondo. Il mio non è quindi uno sguardo “oggetti-vo” o “neutrale”, prima di tutto perché un tale sguardo non esiste. Ogni dubbio, ogni certezza, ogni domanda, ogni immagine, passag-gio o personaggio scelto rivela una precedente presa di posizione, un pregiudizio (un giudizio precedente al giudizio pronunciato). Ogni scelta rivela una predisposizione. Lo accetto, senza proble-mi. Cercherò, questo sì, di essere onesto con il lettore (e questo sì, è possibile) e di trasmettergli l’esperienza vissuta a Torino così come l’ho vissuta io.Questo è esattamente ciò che manca nella maggior parte dei reportage, perché qui non si tratta solo di ciò che i protagonisti raccontano ed io interpreto. Si tratta, anche, della mia vita.Al Contingente Internazionale di Medici Specializzati in Situa-zioni di Disastro ed Epidemie Gravi Henry Reeve (un nome ecces-sivamente lungo e quindi quasi mai utilizzato, meglio noto come Contingente o Brigada Henry Reeve) di Cuba, costituito nel 2005 a seguito dell’uragano Katrina con il proposito di prestare soccorso al popolo nordamericano, sono iscritti migliaia di medici e infer-mieri volontari che vivono e lavorano su tutto il territorio cubano, nelle grandi città e nei piccoli paesi. Funziona come una squadra di soccorso. Scatta un “allarme” e si forma rapidamente il nuovo contingente della Brigada: gli organizzatori sanno chi degli iscritti si trova in altre missioni di cooperazione internazionale all’estero, quali sono le rispettive competenze (ad esempio se hanno presta-to servizio in un Paese con la stessa lingua) e chi si trova a Cuba.Iniziano le telefonate per conoscere la disponibilità del candi-dato, che viene trasferito immediatamente a L’Avana. Il volonta-rio sa che il tempo che passa tra la chiamata e il trasferimento nel-la capitale è solo questione di ore, anche la sua famiglia lo sa: è un piccolo “terremoto” nella vita familiare che stravolge tutti i piani. La durata della missione non è specicata: i volontari si recano sul “luogo dell’incendio” e non fanno ritorno nché l’incendio non si

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20CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE è spento. Tuttavia, a differenza delle decine di contingenti medici cubani permanenti dislocati in tutto il mondo per programmi di assistenza sanitaria primaria o secondaria, in aree remote di difci-le accesso o altre aree molto povere, le cui missioni possono dura-re anche due o più anni, le missioni svolte dalla Brigada Henry Ree-ve sono organizzate “a chiamata” e generalmente non superano il tempo necessario a far rientrare l’emergenza. E questo può richie-dere mesi o settimane.Questa emergenza paralizza non solo la vita familiare, ma anche quella lavorativa: le istituzioni in cui lavorano questi specialisti san-no che sono iscritti su base volontaria alla Brigada e che potrebbe-ro improvvisamente assentarsi. Saranno temporaneamente sostitu-iti, ma non possono essere licenziati. Durante l’assenza, i volontari continueranno a percepire lo stipendio senza alcuna decurtazione e al rientro verranno reintegrati nelle loro funzioni. Tutti i medici iscritti al programma d’emergenza della Brigada possono comun-que decidere di partecipare ad altre missioni sanitarie, durante le quali non potranno essere convocati, e al rientro potranno nuo-vamente essere soggetti al reclutamento per un’altra emergenza. I volontari possono anche dimettersi dall’incarico, dicendo “da qui in avanti voglio restare con la mia famiglia o occuparmi del mio lavoro a Cuba”, senza nessuna conseguenza sulla propria carriera.Tutto questo è possibile, prima di tutto, per una questione pura-mente matematica: Cuba ha il più alto numero di medici pro capi-te al mondo, nove medici ogni mille abitanti. Secondo l’annuario statistico nazionale cubano, nella sezione riguardante la salute pub-blica, all’inizio del 2019 erano in attività 95.417 medici e 85.000 infermieri. Va detto però che nel 1964, quando decise di inviare in Algeria il primo contingente medico della sua storia, Cuba aveva solo circa 3.000 medici, ma offrì comunque il suo aiuto.Nell’Unidad Central de Cooperación Médica (UCCM) che ha sede a L’Avana, viene organizzato un periodo di formazione intensiva: si studiano le caratteristiche del Paese in difcoltà e dell’emergenza stessa (i danni arrecati nel caso di un terremoto o di un uragano; nel caso di un virus, la sua descrizione scientica e la situazione

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21CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE generale). A questa preparazione partecipa l’Instituto de Medicina Tropical (IPK). Ricordo ad esempio che durante la preparazione dei tre contingenti di medici partiti durante l’epidemia di Ebola per l’Africa occidentale nel 2014, nei giardini dell’istituto erano state installate alcune tende simili a quelle degli ospedali da cam-po dei Paesi colpiti. Furono selezionati i canditati che meglio ave-vano appreso le tecniche e che a seguito delle analisi mediche non presentavano problemi di salute che avrebbero rappresentato un rischio in più. Con il supporto di esperti dell’OMS, i candidati ven-nero istruiti per settimane su diversi temi e procedure, tra cui la vestizione e svestizione con le tute protettive. La formazione coin-volse non solo chi si apprestava a partire per la destinazione colpi-ta, ma anche chi rimaneva a Cuba.A volte i volontari si conoscono già da altre missioni, altre vol-te no, e durante il periodo di formazione si creano le prime ami-cizie, per conoscenze precedenti, perché provenienti dalla stessa provincia o, semplicemente, per afnità di carattere. La permanen-za nel Paese a cui sono stati assegnati suggellerà denitivamente i legami tra queste persone.L’esperienza personale di ogni medico volontario è diversa, ma tutti concordano sul fatto che le convocazioni avvengono nella mag-gior parte dei casi in maniera imprevedibile e urgente.«Anche se faccio parte della Brigada Henry Reeve, questa missione mi ha colto di sorpresa» mi racconta Julio Ortiz Rodríguez, un lau-reato in infermieristica originario di Cienfuegos. «Ho saputo della convocazione quando sono andato a L’Avana a ritirare i medicina-li e gli approvvigionamenti che dovevo portare nella provincia di Cienfuegos per combattere il coronavirus. Ho risposto che sarei partito. Alle tre del pomeriggio mi hanno detto che il giorno dopo mi dovevo presentare all’UCCM. Sono arrivato a casa mia alle due del mattino e alle otto ero di nuovo in viaggio per L’Avana. Non ho avuto il tempo di preparare niente. Mentre viaggiavo da L’Avana a Cienfuegos mia moglie ha preparato tutti i documenti necessari».Il dottor Yoidel Santines, 39 anni, specialista in anestesiologia e rianimazione, non vive sull’isola di Cuba che dà il nome al Pae-

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24CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE se (la Repubblica di Cuba, in realtà, è un arcipelago) ma sull’Iso-la della Gioventù, un’isola più piccola a sudovest. Paradossalmen-te, gli unici a cui si applica la denizione di “isolani”, a Cuba, sono quelli che risiedono su quest’isola.«Come sempre in questi casi, è tutto urgente. Mi hanno chia-mato un venerdì notte e sabato era quasi tutto pronto, ma il lune-dì non siamo riusciti a partire. In questi tempi di pandemia ci sono solo tre collegamenti a settimana dall’Isola della Gioventù a L’Ava-na: lunedì, mercoledì e venerdì. Però il mercoledì ero già entrato a far parte della Brigada dell’UCCM. Sono l’unico dell’Isola della Gioventù venuto in Italia, tra la Brigada di Crema e quella di Tori-no. Ce ne sono altri in Sud Africa, a Trinidad e Tobago, ma in Ita-lia ci sono solo io».Il giovane medico Leonel Toledo Galvez, 29 anni, specialista in Medicina Generale, non aveva mai partecipato a una missione internazionale, ma si è iscritto: «Ero in visita nella mia città nata-le, Cienfuegos, quando ho visto al telegiornale che un contingen-te medico stava partendo per la Lombardia. Ho avvertito tutti che se avessi avuto l’opportunità sarei andato anch’io. La mia famiglia mi ha sostenuto, compresa mia moglie. Sono passati due anni da quando ho perso mia madre, quindi dedico principalmente a lei il successo di questa missione. Tutto quello che sono lo devo a lei».Nemmeno il dottor Jorge Luis Arenas Font, 26 anni, era mai andato in una missione: «Quando mi hanno chiamato ho dato subito la mia disponibilità, ma non sapevo che fosse una missio-ne di cooperazione internazionale» mi ha confessato. «Sono sta-to colto di sorpresa, ma mi sono sentito orgoglioso, quale giovane medico non desidera far parte di una missione della Brigada Henry Reeve? L’ho detto ai miei genitori, alla mia compagna, ai miei ami-ci, e tutti hanno provato lo stesso orgoglio, ed eccoci qui, a fare il nostro dovere».Per il laureato in infermieristica Miguel Ángel Sánchez González (che ha compiuto 55 anni a Torino), la decisione di viaggiare ha avuto però altre implicazioni:«Sono stato in Sierra Leone. L’Ebola è stata... non ci sono paro-le, sapevi che stavi affrontando la morte, tutta l’umanità ne era con-

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25CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE sapevole, è stato terribile. Mia moglie è credente, forse questo le ha dato un po’ di forza, fare del bene è sempre confortante. Avevo paura, ma sapevo che dovevo andare. Dopo l’Ebola non sono più andato in missione, no ad ora. Volevo, voglio vedere mia glia lau-rearsi, mi sono concentrato sui suoi studi, perché sono stato sepa-rato dalla mia famiglia per tanti anni e ho pensato che fosse ora di starle vicino. Pensa che quando hanno dichiarato ufcialmen-te la pandemia del coronavirus, ha cominciato subito a girarmi in testa l’idea che potevano convocarmi, che Cuba avrebbe offerto il suo aiuto, che saremmo stati di nuovo in trincea. E tu non puoi negare il tuo aiuto agli altri. Ma il coronavirus non è paragonabile all’Ebola. Nonostante anche qui si rischi la vita, questa esperienza è molto diversa. Per quelli di noi che c’erano ai tempi dell’Ebola, qualsiasi altra esperienza sembra più facile. Si impara a prender-si cura di se stessi, a proteggersi di più. Ci sentiamo più sicuri in quello che facciamo. Non avremmo mai immaginato di venire in questo Paese, in questa grande città, con una cultura millenaria, ma ci siamo resi conto che la nostra conoscenza non è da meno e che il nostro piccolo contributo conta».In pochi giorni è stata costituita la Brigada di 38 membri che sarebbe partita per Torino, capoluogo della regione Piemonte. Devo confessare che in questa situazione non sono subito riusci-to a vestire i panni del mio solito ruolo di comunicatore. Avevo partecipato alle missioni in America Centrale (Nicaragua, Hon-duras e Guatemala), ad Haiti, in Venezuela e nei tre Paesi dell’A-frica Occidentale dove si era sviluppata l’epidemia di Ebola. Ma questa volta la collaborazione ha acquisito un signicato partico-lare: stavamo andando nella Vecchia Europa, in Italia, in uno dei centri più importanti della cultura latina, e anche in un Paese ric-co, membro del G7. È stata una svolta inaspettata, un piccolo Pae-se del cosiddetto Terzo mondo che accorre in aiuto di uno molto potente del Primo mondo. E lo fa in modo assolutamente gratui-to: né Cuba né i suoi medici hanno guadagnato un centesimo da questa operazione. Il governo cubano ha pagato un magro stipen-dio ai membri della Brigada, proporzionato alle sue possibilità, e ha come sempre mantenuto i loro stipendi a Cuba.

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26CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE Cuore… vengo a consegnarvi il mio cuoreDue dei primi quattro libri che ho letto da bambino e che han-no posto le basi della mia formazione come essere umano, sono di autori italiani, Pinocchio (quando ancora non sapevo leggere, mia madre leggeva a me e ai miei fratelli un brano del libro tutte le sere prima di andare a dormire) e, ovviamente, Cuore di Edmondo De Amicis, con il quale ho avuto un rapporto più intimo perché lo lessi io, e appresi che il piacere di leggere comprende tutto: l’atto intangibile dell’immaginazione e dei sentimenti che volano, e quel-lo tangibile dell’odore e del tatto su quella “scatola” che ci traspor-ta in altri mondi. Da allora proprio non riesco a sostituire il piace-re della lettura di un libro di carta, tra le mie mani, con quello di leggerlo su uno schermo, grande o piccolo che sia.Due coincidenze trasformarono in un riferimento speciale quel libro che ancora dimora, logoro ma trionfante, sugli scaffali della mia libreria, la prima edizione cubana con copertina rigida e carta buona, con illustrazioni a colori che facevano volare la nostra imma-ginazione e ci facevano battere il cuore. Il protagonista, il ragazzo che scrive il diario, si chiama Enrico come me. Arrivai a identi-carmi con lui così tanto che per molto tempo dormii con il libro sotto il cuscino. Inoltre, quell’Enrico (che da allora sono io) viveva e scriveva a Torino, la città verso la quale stavamo volando. Quel-la città aveva occupato un posto speciale nella nostra immagina-zione infantile: l’avevamo “memorizzata” senza averla mai visitata, avvolta da una densa aura di emozioni. Per questo non mi sorpre-si quando la scrittrice cubana Graziella Pogolotti, glia di Marcelo Pogolotti, uno dei più importanti arteci dell’avanguardia artisti-ca cubana degli anni Venti e Trenta del secolo scorso, entrambi di origine italiana e piemontese, mi rivelò quanto fosse stato impor-tante per lei quel libro.Però questa è un’altra storia che racconterò più avanti, perché la Brigada, quasi alla ne del suo soggiorno di tre mesi a Torino, ha visitato Giaveno e il suo piccolo cimitero, dove riposano gli ante-nati della famiglia Pogolotti. Il sindaco, con il nastro tricolore al

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27CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE petto come nelle illustrazioni di quella vecchia edizione del libro Cuore, ha consegnato alla Brigada l’Onoricenza della Presidenza del Consiglio come riconoscimento per il suo lavoro.Ma torniamo all’aereo di Blue Panorama che è venuto a pren-derci, quando tutti gli aeroporti e le frontiere del mondo avevano chiuso e gli abitanti del pianeta Terra non potevano lasciare i loro paesi, le loro città, le loro case. Un aereo solo per noi. I tre posti di ogni la sarebbero stati, forse per l’unica volta nella nostra vita, di esclusivo uso individuale. Le prime immagini sono indelebili: l’accoglienza sulla pista dell’aeroporto Sandro Pertini, a Caselle, alla presenza del governatore Alberto Cirio, della sindaca Chiara Appendino e del nostro ambasciatore a Roma, José Carlos Rodrí-guez Ruiz. Mesi dopo, la sindaca Appendino avrebbe ricordato così questo momento: «La bandiera cubana accanto al nostro tricolore rappresentava una vicinanza simbolica che, poco dopo, attraver-so la scaletta dell’aereo che stavamo aspettando, sarebbe diventata estremamente concreta. I gomiti segnavano le distanze, le masche-rine coprivano i sorrisi, le parole erano poche, ma gli occhi tradi-vano le emozioni che Torino e il nostro Paese avrebbero sempre portato con sé».Un’immagine che il dottor Julio Guerra Izquierdo, capo del-la nostra Brigada, avrebbe confermato al momento di ricevere il titolo di Cittadino Onorario della Città di Torino: «Uno dei primi volti che abbiamo visto scendendo le scale dell’aereo è stato quel-lo della sindaca della Città di Torino Chiara Appendino, e nel suo sguardo dietro la mascherina avvertimmo la gratitudine per qual-cosa che non era ancora iniziato».«Alcuni assistenti di volo si sono emozionati» annotai quello stesso giorno nel mio diario «e quando li abbiamo lasciati li ho visti asciugarsi gli occhi».Proprio sulla pista ci fecero il tampone per confermare quello che avevamo già fatto quando eravamo partiti da Cuba, e ci ospi-tarono in un piccolo e accogliente albergo vicino alla città no a quando non furono noti i risultati. Quell’edicio, comodo ma non lussuoso, e il suo personale, per lo più giovani ospitali e premuro-si, furono i primi contatti in quel mondo sconosciuto. La nestra

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30CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE della mia camera dava sul cortile interno di una palazzina di due o tre piani. Quasi al livello del mio piano c’era il balcone di una delle case, con le solite cianfrusaglie in disuso che non trovano più posto all’interno della casa. Ero incuriosito e fantasticavo sulle loro vite mentre guardavo i suoi abitanti andare e venire, un’adolescen-te e una donna laboriosa. Il risultato arrivò quella notte con sollie-vo di tutti, soprattutto dei lavoratori dell’hotel: i 38 membri della Brigada erano negativi al virus. Nella mattinata successiva fummo trasferiti nella residenza studentesca dove saremmo stati alloggiati denitivamente. Incollati ai vetri dell’autobus, divoravamo le pri-me immagini della città.La casa e l’ospedaleQuella stessa mattina visitammo i giganteschi magazzini dell’an-tica Ofcina Grandi Riparazioni, ritenuta dagli storici la cattedrale dell’industria torinese. Le OGR vennero inaugurate nel 1895, anno in cui a Cuba era appena iniziata l’ultima guerra per l’indipenden-za dal regno spagnolo e in combattimento moriva José Martí, il più grande patriota e poeta di Cuba e uno dei più grandi dell’America Latina. Quei capannoni furono destinati alla riparazione delle loco-motive no a diventare oggi un grande centro culturale. Quando arrivammo, un contingente del Corpo del Genio dell’Aeronautica Militare Italiana stava lavorando senza sosta per riadattare il primo di questi capannoni a ospedale da campo.La residenza dove siamo stati sistemati faceva parte di un com-plesso di edici realizzato come Villaggio Olimpico per le Olimpia-di invernali che si sono svolte a Torino nel 2006. Da allora, il Poli-tecnico della città aftta i locali ai propri studenti. Ci trovavamo in un “triangolo” di cui un vertice era rappresentato dall’Università, che si estendeva per più isolati e connava con alcuni stabilimen-ti nei quali gli studenti, suppongo, possono svolgere i loro tiroci-ni; al vertice opposto c’erano le OGR – probabile punto di ritrovo per gli studenti perché lì c’era una discoteca e si tenevano mostre di arti visive e spettacoli teatrali, e a soli due isolati il complesso di

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31CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE edici della nostra residenza, il terzo vertice del triangolo. In altre parole: dall’ingresso del nostro edicio all’ingresso dell’ospedale c’erano solo due isolati e mezzo di distanza.Però il complesso residenziale non era a nostra disposizione. I protocolli sanitari richiedevano che rimanessimo isolati perché avremmo lavorato, giorno e notte, nella zona rossa dell’ospedale. Nemmeno l’edicio dove risiedevamo poteva essere percorso libe-ramente. Occupavamo tre dei cinque piani e in uno solo di questi avevamo accesso a una piccola sala da pranzo o sala studio. Le stan-ze, piccole, avevano tutto il necessario: un letto singolo, un tavolo e una sedia, un frigorifero, un armadietto. All’ingresso, a sinistra, c’era il bagno. Potevamo guardare la televisione in una piccola stan-za situata nel seminterrato, che però abbiamo usato solo in poche occasioni, per incontrarci. I saloni delle cucine erano chiusi. Così, dal primo giorno, abbiamo fatto colazione, pranzo e cena in ospe-dale, anche nei giorni precedenti la sua inaugurazione.La città di Torino aveva dichiarato il lockdown: nessuno cammi-nava per le strade, circolavano pochissime auto (non dimentichia-mo che ci trovavamo nella capitale dell’industria automobilistica italiana), e durante il primo mese abbiamo visto solo i marciapie-di che abbiamo percorso giorno dopo giorno (almeno tre volte al giorno), dalla residenza all’ospedale, e viceversa. Non era certo la Torino mille volte immaginata. Ogni membro della Brigada rice-vette una carta magnetica. All’uscita e all’ingresso del palazzo una guardia della Protezione Civile la faceva passare da un lettore che registrava l’ora; quello era anche il nostro salvacondotto per usci-re in strada. Con il passare dei giorni, la carta magnetica smise di essere utilizzata, ma le restrizioni nell’edicio che stavamo occu-pando furono mantenute.Al momento del nostro arrivo fu attivata un’altra “Brigata”, una controparte della nostra. Ci accolse sulla pista dell’aeroporto con un grande telo con la scritta: “ .   ”. La mamma di Michele Curto, il principale promotore di quell’in-solito sistema di sostegno, aveva ritagliato lo striscione dal lenzuo-lo matrimoniale che faceva parte del corredo di nozze. Poco dopo, quando salimmo sull’autobus, ci fornirono l’elenco dei loro nomi,

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36CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE dei numeri di telefono e una comunicazione che sembrava poco plausibile, ma che fu poi confermata dai fatti: “ ,  -          ”. Da lì in avanti sarebbero stati la nostra guida, che avremmo chiamato per qualsia-si cosa: un computer che non funzionava, il caffè che mancava, un problema del servizio di lavanderia. Non erano operatori sanitari, alcuni avevano svolto funzioni diplomatiche, ma tutti erano iscrit-ti alla Croce Rossa. Rispondevano a una necessità che richiedeva prima di tutto la padronanza della lingua spagnola. Erano giovani per la solidarietà. Tra loro, in una città cosmopolita come Torino, c’erano anche tre argentini, una cubana e una italo-marocchina con cui la Brigada ha poi stretto un rapporto straordinario.Prima di continuare, devo presentare Michele Curto. Presie-de l’Agenzia per lo Scambio Culturale ed Economico con Cuba (AICEC), un’organizzazione non governativa che promuove lo scambio tra i due Paesi, soprattutto tra la Regione Piemonte e Cuba, ed è stato uno dei promotori della presenza medica cubana a Torino, intermediario permanente tra le autorità piemontesi e la Brigada. È stato il “mago”, l’uomo che “risolve” tutti i problemi, che è qui e là nello stesso momento, competente in ogni minimo dettaglio. Iperattivo, cellulare alla mano pronto a essere brandi-to come la lancia di Don Chisciotte, dovevi camminare a due pas-si per volta per stargli accanto. Se gli avessimo chiesto: «Abbiamo bisogno di un elefante per domani», avrebbe chiesto preoccupa-to: «Un elefante?!», e sarebbe rimasto assorto nei suoi pensieri per cercare una soluzione. Il giorno dopo, sarebbe riapparso in ospe-dale – occhi luminosi e sorridenti – con un elefante. Ci ha dato tut-to il suo tempo e le sue energie, per tutto il periodo della nostra permanenza a Torino, anche se l’arrivo della sua danzata, che lo avrebbe legato più intimamente a Cuba, ci ha privato di qualche ora della sua compagnia.Il giorno prima dell’inaugurazione dell’ospedale, noi medici e infermieri partecipammo all’organizzazione delle sale. Trasportam-mo e sistemammo i letti, i computer, le sosticate apparecchiature mediche. Quando tutto sembrava in ordine, apparve il presidente della Regione Alberto Cirio per visitare la struttura. Iniziarono le

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38CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE presentazioni: il dottor Sergio Livigni, il direttore dell’ospedale, è un uomo che ama la sua professione e non la considera svincolata dalla società. Questa sua caratteristica lo ha avvicinato molto ai cuba-ni. Insieme hanno progettato l’assistenza epidemiologica al dormi-torio femminile del Gruppo Abele, a partire dai contatti stabiliti da Michele Curto, dove si accolgono le donne senza ssa dimora.Hanno sperato di creare legami più forti e più aperti tra gli ospedali e la comunità, creando un programma di screening e assi-stenza domiciliare che si è riusciti a realizzare solo parzialmente. Il dottor Alessandro Martini, direttore medico, è stato forse il più vicino a noi cubani. Ha guidato le riunioni tecniche che si teneva-no il pomeriggio – necessarie per discutere le procedure del gior-no precedente e le possibili discrepanze dei pareri medici – e ha potuto apprezzare la competenza dei medici cubani nello svolgi-mento delle attività quotidiane. A tal proposito una volta ha dichia-rato, dopo una procua discussione: «Voi diagnosticate con poche risorse, siete molto precisi; pensate, utilizzate i dati clinici per dia-gnosticare e lo fate con precisione, senza bisogno di analisi com-plementari. Nel mio ospedale avremmo speso una montagna di risorse e il risultato non sarebbe stato migliore».Questa è stata una delle occasioni di crescita professionale da cui, credo, hanno imparato sia i cubani che gli italiani. I medici cubani, per tradizione e per necessità, poiché provengono da un Paese che subisce un embargo economico, commerciale e nanzia-rio unilaterale da parte degli Stati Uniti da più di sei decenni, che rende difcile l’accesso alle tecnologie più recenti, hanno svilup-pato di più il metodo clinico. A Torino hanno trovato una medici-na molto dipendente dalle tecnologie, e hanno dovuto imparare ad usarle al volo; un benecio, senza dubbio, sia a livello persona-le che per Cuba. I medici italiani – e devo aggiungere che la mag-gioranza di quelli che ci accompagnavano nelle visite nella zona rossa erano giovanissimi, quasi tutti laureati da poco – si afdava-no di più alla tecnologia d’avanguardia a loro disposizione. Con i medici cubani, soprattutto quelli di maggiore esperienza, hanno

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39CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE imparato ad osservare i sintomi sici e a trarre le proprie conclu-sioni, una tecnica antica quanto la medicina stessa.Il dottor Miguel Acebo, pneumologo della Brigada cubana, è stato invitato a tenere una conferenza sulla Semiologia dell’appa-rato respiratorio. La semiologia o semeiotica medica studia i sinto-mi, i segnali del corpo umano che permettono, dall’esame obietti-vo, di valutare e interpretare l’esistenza di una malattia. Alessandra Monzeglio, la direttrice infermieristica dell’ospedale che ha svolto anche le funzioni di amministratrice, ha riassunto così: «I medici cubani ci hanno insegnato che i pazienti vanno toccati, ausculta-ti, visitati». Voglio aggiungere, perché è stato motivo di soddisfa-zione personale, che i dottori Livigni e Martini, ciascuno per con-to proprio e senza che io lo sapessi, hanno acquistato su Amazon l’edizione nordamericana, in inglese, del mio libro Zona roja. La epopeya cubana del Ébola (2016) in cui racconto la mia esperienza con i medici cubani in Liberia, Sierra Leone e Guinea. Alessandra Monzeglio è, come si suol dire, una del mestiere. Ama con passio-ne il suo lavoro e sarebbe stata capace di comprare un medicina-le con i suoi soldi se in qualche momento la burocrazia ne avesse ritardato l’arrivo in ospedale. Sembrava distaccata, ma credo fosse solo una corazza: il suo cuore è tenero e pieno di affetto. Nell’ul-tima foto che le ho scattato, durante il pranzo d’addio collettivo della Brigada cubana, appare abbracciata a uno degli epidemiolo-gi cubani, con gli occhi velati da un sottile strato di cristallo, sul punto di piangere.La Brigada cubana era composta da due epidemiologi, uno pneu-mologo, un medico intensivista, due medici di medicina generale, un dermatologo, un urologo, un nefrologo, un chirurgo, un ane-stesista, un endocrinologo e diversi medici di famiglia, e nella com-ponente italiana c’erano diverse specialità mediche. Questo arric-chiva e ampliava l’analisi di ogni caso e la trasformava, come spesso accade negli ospedali cubani, in un dibattito multidisciplinare.

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40CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE I più giovani della BrigadaLa Brigada era un caleidoscopio umano: c’erano specialisti pro-venienti da quasi tutte le province, di età, specialità ed esperienze professionali diverse. L’età media era di 41 anni; dei suoi 38 mem-bri, 11 avevano meno di 35 anni. Si è propensi, logicamente, ad esaltare i percorsi professionali dei maestri, che sono senza dubbio decisivi. Ma non bisogna dimenticare o sottovalutare i giovani. Alcu-ni erano specialisti altamente qualicati che si stavano confrontan-do per la prima volta con altri professionisti a livello internaziona-le. Erano orgogliosi di sé e volevano – e se lo volevano, potevano farlo – lasciare un segno. A poco a poco li presenterò. I più giova-ni sono arrivati a Torino all’età di 26 anni e in questa città hanno compiuto i 27. Già a Cuba erano amici inseparabili.Jorge Luis Arenas Font è specialista in Medicina Generale Inte-grale (Medicina di Famiglia), che nel nostro sistema sanitario ha sempre la priorità. La sua compagna di vita è Arlette Rivas Díaz, tecnica di sioterapia e riabilitazione. Sono genitori di una bam-bina che ha compiuto cinque mesi il 2 aprile 2020. Quello che sognava di fare quando era adolescente, non era il medico. Vole-va diventare un giocatore di baseball. E ha giocato, giocava mol-to bene. Ma non ha rimpianti: «Mio papà è ingegnere meccanico e mia mamma è laureata in scienze dell’educazione, la medici-na è stata una casualità nella mia vita, perché sono sempre stato legato allo sport, ho praticato il baseball e l’atletica leggera, ho vissuto a Villa Clara, ho partecipato a diversi campionati nazio-nali. Andai a vivere a L’Avana quando avevo 12 anni per dedicar-mi allo studio e ottenni risultati che mi permisero di conseguire una laurea in medicina. Ogni giorno parlo con la mia compagna, mi mandano i video della bambina» mi ha raccontato emoziona-to. «Staremo qui nché avranno bisogno di noi, ma questo non sarà tempo perso, sarà importante. Dirò alla mia bambina: guar-da, ho dovuto andar via per questo, e sono sicuro che mi capirà e sarà orgogliosa, come lo sono i miei genitori e tutti i miei ami-ci, come lo sono io».

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42CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE Il suo amico, il dottor Roberto Javier Avilés Chis, è di qualche mese più giovane: «Nella mia famiglia materna ci sono altri profes-sionisti in ambito medico» ha spiegato. «Mia nonna è laureata in infermieristica; mia madre è laureata in sioterapia e ho un cugi-no medico, anche lui attualmente si trova all’estero in una missio-ne di cooperazione internazionale». È un giovane serio, nel senso buono della parola, come direbbe il poeta, e sa esprimere con pre-cisione le sue idee e i suoi sentimenti. Quando era a Cuba si alza-va prestissimo nell’umile quartiere di Los Sitio, nel centro de L’A-vana, dove vive con la madre, e si recava nella città di Artemisa, a due ore di macchina, il suo luogo di lavoro. Mi ha detto: «È stata la mia vocazione a portarmi a fare il medico. Aiutare le persone è bellissimo e ti dà una grande soddisfazione».Ma è anche un giovane allegro, un gran ballerino. L’ho visto ballare in un giorno di pausa al residence. Il dottor Roberto guida-va gli altri ballerini con i suoi movimenti precisi. Suo padre è musi-cista e dirige l’orchestra Alejandro y sus Onix di Villa Clara. «Mi portava ai concerti da piccolo. Mio padre non è solo un musicista, è un artista in tutti i sensi e mi ha sempre trasmesso la sua cono-scenza. La conoscenza non occupa spazio. Conoscere qualcosa di nuovo ogni giorno è molto bello».Ho conosciuto il capo della Brigada cubana a Torino, il dottor Julio Guerra Izquierdo, nel 2006, nell’Amazzonia venezuelana. Ero lì per scrivere un libro, come in questo caso, ed ero affascinato dal-la scoperta della giungla e delle sue comunità native, così come dei suoi umi, così vasti e possenti che a volte da una sponda non si poteva vedere l’altra. Quelle comunità, lontane dal Venezuela moderno, ricevevano per la prima volta assistenza sanitaria. Il dot-tor Guerra, che all’epoca aveva 29 anni, era uno specialista in Medi-cina Generale Integrale. Stavo tornando a Puerto Ayacucho, dove lui lavorava come vice capo di una Brigada cubana a livello locale, dopo un viaggio nel comune dell’Alto Orinoco, il più complesso, e mi propose di andare a San Fernando de Atabapo, che è al con-ne tra Venezuela e Colombia, seguendo il corso del ume, in una giornata di forti acquazzoni. Abbiamo navigato in motoscafo attra-verso l’Orinoco con l’allora sindaca di Atures. Il cielo sembrava

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44CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE volerci letteralmente piombare addosso, non come nelle giornate umide e fredde di Torino in cui la pioggia non ha né un inizio né una ne e il cielo e la terra si confondono. Nel libro che ho intito-lato Venezuela rebelde (2006), lo ricordo così: «Seduto su una picco-la sedia pieghevole di tela, leggermente curvo ma rivolto a prua, fronteggiando i proiettili d’acqua portati dal vento, intirizzito dal freddo, il volto impassibile e stoico».Adesso ha 43 anni, è un importante nefrologo, la sua secon-da specialità. Sua moglie è una stomatologa e hanno un glio. A Cuba è vicedirettore generale dell’Ospedale Gustavo Aldereguía di Cienfuegos. Ma oltre a quella in Venezuela (con gli Yekuanas e gli Yanomami dell’Amazzonia), nel suo bagaglio di esperienze ha altre due importanti missioni: nel Quiché guatemalteco e a Gibu-ti, piccolo stato musulmano del Corno africano. In un’occasione mi ha detto: «La sda più grande per l’umanità è capire che dopo il coronavirus dobbiamo pensare alla vita in modo diverso». Il suo percorso di medico impegnato a livello internazionale azzera i pre-giudizi che sostengono l’idea che esista una “guerra di civiltà”: i medici cubani hanno infranto le barriere articiali che ci separa-no e vengono accolti come fratelli da società e culture precolom-biane, islamiche o europee.BiosicurezzaMa c’è stato un altro elemento cruciale nel processo di cono-scenza reciproca tra i medici e gli infermieri arrivati da Cuba e quelli del Paese ospitante: il concetto di biosicurezza. La medicina cubana deve affrontare ogni anno la comparsa di epidemie tropi-cali (che in alcuni casi diventano endemiche) come la dengue, ad esempio, e ha sviluppato sosticati protocolli di lavoro. L’Instituto de Medicina Tropical ha la missione di indagare e sviluppare imme-diatamente protocolli di risposta ad ogni nuovo virus che com-pare nel mondo. La partecipazione degli specialisti della Brigada Henry Reeve in differenti epidemie che sono sorte o che si sono dif-fuse negli ultimi anni nei Paesi dell’Africa o dell’America Latina,

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48CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE siano esse di colera, malaria o Ebola, ha permesso di accumulare una grande esperienza.L’Italia, al contrario, e in generale i Paesi europei, non hanno affrontato epidemie dai tempi della cosiddetta inuenza spagnola, all’inizio del XX secolo. Il dottor Giovanni Di Perri, responsabile del reparto Malattie Infettive dell’Ospedale Amedeo di Savoia di Torino, mi ha detto in un’intervista: «Nessuno pensava che questa malattia fosse così contagiosa. Un esempio: sono uno specialista in malattie infettive e, quando in Italia abbiamo visto i primissimi casi, subito si è pensato che fosse necessario riunire i principali virologi del Paese. Mi presentai all’incontro con la mascherina e tutti escla-marono ‘che esagerato!’. Il 60% di chi era lì prese il , nessuno pensava potesse andare così». Per essere precisi, quando arrivò la Brigada cubana, l’11% dei positivi in Italia erano operatori sanitari.Dei 38 membri della nostra Brigada, dodici infermieri e due epidemiologi erano stati in missione nei tre Paesi colpiti dall’Ebo-la (nove infermieri e uno degli epidemiologi in Sierra Leone; due infermieri e l’altro epidemiologo in Liberia; un infermiere in Gui-nea). Il rigore che richiese quell’esperienza venne applicato anche all’Ospedale  presso le OGR di Torino. I responsabili della “dogana” per l’ingresso e l’uscita (indossare e togliere la specia-le tuta protettiva) dalla zona rossa erano gli epidemiologi cubani René Aveleira e Adrián Benítez.All’inizio, i medici italiani più giovani hanno accolto le richieste con insofferenza, con l’irruenza dell’età e del temperamento latino (che abbiamo ereditato anche noi cubani) e ci sono state piccole incomprensioni. «Voi lavorate con allegria, e questo è importan-te», mi ha confessato una volta la dottoressa Paola, 25 anni, origi-naria del Sud Italia, e ridendo ha aggiunto: «Voglio ringraziare in particolare gli epidemiologi René e Adrián per il loro lavoro, per-ché hanno una pazienza straordinaria, soprattutto con me». L’in-fermiera Giulia, 24 anni, lo ha ricordato qualche mese dopo così: «Qualche giorno fa abbiamo parlato di quando ci vestivamo e spo-gliavamo per entrare o uscire dalla zona rossa; all’inizio eravamo arrabbiati con i cubani, dicevamo ‘adesso arriva questo a dirmi cosa devo fare e come devo farlo’, ma poi abbiamo capito che era

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49CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE necessario e adesso, quando usciamo, li cerchiamo così ci guarda-no e ci aiutano, e ci sentiamo più sicuri». Il premio lo hanno rice-vuto quando l’ospedale è stato chiuso: degli oltre 100 lavoratori italiani (personale sanitario e di servizio) e dei 38 cubani, nessuno è risultato positivo al tampone.La solidarietà dei torinesiLa città di Torino è stata accogliente con noi cubani. Il primo giorno di lavoro, un’infermiera dell’Amedeo di Savoia ci ha man-dato per cena le lasagne fatte in casa. Dopo è diventata consue-tudine che un ristorante cittadino ogni giovedì inviasse un piatto per compensare il cibo senza condimenti dell’ospedale, preparato anche per i malati. Ma i primi a esprimere in modo chiaro e tan-gibile la loro solidarietà alla squadra dei medici cubani sono stati, naturalmente, i nostri vicini di casa, cioè gli studenti del Politecni-co che il lockdown teneva chiusi nelle loro stanze. Non potevano entrare nel nostro edicio, né noi nel loro.Un pomeriggio, il dottor Adrián ha bussato emozionato alla mia porta chiedendomi di accompagnarlo. Dalla nestra della sua camera si vedevano gli edici del complesso residenziale sul retro dell’ampio cortile interno con il prato. Al balcone di uno di essi avevano appeso una grande bandiera cubana di stoffa. Avvertiti di questo, ci avevano raggiunto altri medici e infermieri cubani. All’improvviso, dagli edici circostanti, gli studenti italiani comin-ciarono ad applaudire. In alcuni casi potevamo vedere solo le mani che spuntavano dalle fessure delle nestre; in altri, molto lontani, i volti sorridenti dietro le nestre. È stato un momento magico. Un altro giorno, mentre passavo di fretta davanti all’ingresso princi-pale del complesso – nel nostro edicio si entrava da un altro lato – abbiamo visto che un adesivo della bandiera cubana era stato posto sul vetro del box della guardiola. Sono rimasto lì a guardar-la e il custode, un uomo anziano, mi ha sorriso.Ma l’apoteosi di quegli incontri a distanza con gli studenti è avvenuta il 25 aprile, il giorno della Liberazione dal nazifascismo.

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51CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE La sera prima, riuniti all’ingresso dell’Ospedale  delle OGR, italiani e cubani si erano tenuti per mano e avevano cantato insie-me Bella Ciao. Le manifestazioni pubbliche erano vietate per la pandemia e gli studenti le celebrarono da soli tra le mura dei loro edici. In quella circostanza installarono un altoparlante rivolto verso il cortile interno e misero le loro canzoni preferite. Ma non appena tornati dal lavoro i medici che abitavano nelle stanze le cui nestre si affacciavano sul cortile, iniziarono a suonare canzo-ni cubane, come Che Comandante di Carlos Puebla e Guantaname-ra di Joseíto Fernández.Ovviamente, questo attirò l’attenzione dei cubani che si uniro-no ai cori. Tra una canzone e l’altra qualcuno gridò “Viva Cuba!” e noi rispondemmo “Viva l’Italia!”. Fino a quando, inaspettatamente, suonarono l’Inno Nazionale di Cuba. All’inizio prevalse lo stupo-re, ma subito dopo diversi medici cubani cominciarono a cantarlo ad alta voce, e poi tutti li seguimmo. La cosa più signicativa fu che no a quel momento il baccano dei giovani copriva le canzoni e le rendeva appena udibili. Sospetto che una certa gradazione alcoli-ca abbia animato la festa. Ma mentre cantavamo l’Inno Nazionale regnò il silenzio assoluto. Non ci siamo mai incontrati. Voglio dire, non abbiamo potuto vederci, stringerci la mano, guardarci negli occhi. Ma nessuno dei 38 membri della Brigada Henry Reeve di Tori-no dimenticherà mai gli studenti del Politecnico di Torino.Nella zona rossa, a poco a poco, si sono distinti alcuni specialisti: per le loro conoscenze, sì, ma soprattutto per i rapporti che han-no instaurato con i pazienti. Un medico torinese mi ha assicurato che gli italiani del nord non sono molto espansivi, ma l’esperienza vissuta contraddice questo stereotipo. «Abbiamo chiesto ai pazien-ti dimessi di scrivere un pensiero, una riessione sulla loro perma-nenza in ospedale. Pensavo che avrebbero scritto molto poco, ma hanno scritto così tanto che ora quei testi costituiscono una narra-zione collettiva. Molte di quelle parole e pensieri sono dedicati ai cubani, alla loro umanità, al loro coraggio». Così mi ha racconta-to il dottor Alessandro Martini, direttore clinico dell’ospedale, che ha fotografato ognuno di quei testi scritti a mano con uno dei cel-lulari a disposizione nell’area.

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54CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE Due dei medici, uno di Santiago di Cuba e l’altro di Santa Clara, Abel Tobías Suárez, 42 anni, burlone, estroverso, e Miguel Acebo Rodríguez, 37 anni, pneumologo, introverso e serio, ma allo stesso tempo caloroso, sono i più citati nelle lettere di addio dei pazienti. Uno ha scritto: «La permanenza in ospedale è stata ottimale. Otti-mi i dottori e gli infermieri. Buoni i medici cubani, e in particola-re il dottor Miguel. Vi ringrazio tutti con affetto. Grazie». Un altro ha detto: «Sono stati i nostri angeli. I medici e gli infermieri e tut-to lo staff mi hanno riportato in vita, e mi hanno dato il coraggio e la forza per andare avanti. Grazie per tutto l’affetto e la pazien-za. Siamo usciti guariti e lo dobbiamo a voi. Porterò ciascuno di voi nel mio cuore». Una terza: «Per il vostro impegno virtuoso, com-plimenti. Grazie dal profondo del cuore ai medici e agli infermie-ri, italiani o stranieri che siano». «Ringrazierò sempre tutti coloro che si sono impegnati nella lotta per sconggere questo maledet-to virus», e ha proseguito: «Grazie a tutti gli operatori sanitari, infermieri e medici. Grazie di cuore. Le OGR stanno crescendo, cresce anche la professionalità e la gentilezza di tutti». La pazien-te Anna Maria ha elencato in modo sintetico i suoi commenti: «1) ringrazio tutta l’équipe, in particolare: il dottor Umberto, il dot-tor Abel, il dottor Amedeo, l’infermiera Federica e l’operatore di servizio Luca; 2) la squadra cubana è stata eccellente; 3) anche il posto; 4) l’organizzazione può migliorare...». È stato molto giusto il riconoscimento che la paziente Francesca ha fatto ai giovanissi-mi medici italiani, desiderosi di migliorare la loro professionalità, lontani da ogni forma di corporativismo: «Auguro a tutti i giovani dell’équipe di continuare nella vita con lo stesso spirito che li ha accompagnati qui, dimenticando l’io per essere noi». Inne, ripor-to le parole di Antonino: «Ringrazio tutta la squadra per avermi rimesso in piedi, dopo un brutto male come il coronavirus. Devo congratularmi con i medici cubani e italiani per le loro quotidia-ne visite di controllo».Ora vi presento il dottor Abel Tobías Suárez Olivares. C’era una volta uno studente di Santiago che si era distinto come studente di medicina. Dopo la laurea, entrò a far parte del Movimiento de Vanguardia Mario Muñoz e, come “premio”, trascorse il suo primo

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56CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE anno post-laurea nel comune di Segundo Frente (in un luogo sper-duto nella Sierra Maestra). L’anno successivo lo passò in Guate-mala. Lì conseguì la sua prima specialità, Medicina Generale Inte-grale. Ma quando tornò, volle restare nelle montagne della Sierra Maestra per altri due anni. Non ha smesso di studiare e a 42 anni è diventato specialista di secondo grado in Medicina Interna e in Organizzazione e Amministrazione sanitaria. Sua moglie Vivian Vera Vidal, oculista, era già sua compagna di missione quando, nel 1996, iniziarono la loro carriera. La loro relazione è comin-ciata però la notte del 27 gennaio 1998, nella tradizionale marcia delle accole che la Federazione studentesca universitaria cuba-na organizza dal 1953 per celebrare l’anniversario dalla nascita di José Martí. Si sono sposati nel 2002 dopo aver conseguito la lau-rea. Entrambi lavorano attualmente presso l’Ospedale Generale Doctor Juan Bruno Zayas di Santiago di Cuba e hanno due gli: una bambina di 10 anni e un bambino di 8 (li ha compiuti il 17 aprile 2020). Abel e la moglie Vivian, anche lei studentessa eccezionale, hanno lavorato insieme in Guatemala.Nella sua memoria è inciso un triste episodio dei suoi giorni in Guatemala: un padre non volle che suo glio fosse curato per-ché attribuiva la malattia di cui soffriva a un malvagio incantesimo. Il ragazzo, disse, era uscito dal ume nell’ombra e non dalla par-te del sole. La credenza, tuttavia, è una metafora che ha una sua verità. In Guatemala e in Mozambico, Abel Tobías capì che ci sono bambini che a causa delle proprie origini, nascono segnati dall’o-scurità e altri dalla luce. Anche se non crede alla fatalità del desti-no. Un bel giorno di aprile fu chiamato a far parte della seconda Brigada medica che sarebbe partita per l’Italia, uno dei Paesi più ricchi d’Europa.La signora Maria Luisa Perrone, un’italiana malata di , che è stata curata all’ospedale da campo di Torino dal dottor Abel Tobías, non sa nulla di questa storia. A causa dei turni, il medico cubano non c’era quando fu dimessa, ma lei ha voluto scrivergli qualche parola: «La sua professionalità e la grande umanità che ci ha dimostrato rimarranno per sempre nel mio cuore e nella mia mente. È stato un gesto di immensa generosità venire a Torino a

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57CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE prestarci il suo prezioso aiuto in questo terribile momento e in que-sta situazione pericolosa. Non riesco a trovare altre parole, posso solo dire grazie, grazie, grazie». Abel Tobías era emozionato quan-do ne abbiamo parlato, ma era soprattutto sorpreso. «Il rapporto che avevo con lei è stato quello che cerco di instaurare con tutti i pazienti», mi ha risposto con la voce ancora commossa, «li tratto come persone che hanno un problema di salute, e sono rimasto davvero sorpreso dalla lettera, non me l’aspettavo».Mesi dopo, al pranzo di addio, abbiamo visto un frammento di un documentario ancora in preparazione nel quale il dottor Abel Tobías ricorda come durante gli anni più difcili del cosiddet-to Periodo Speciale a Cuba, negli anni ’90, quando il commercio (ordini di acquisto e di vendita, macchinari, cibo, pezzi di ricam-bio) con l’Europa dell’Est e l’URSS si interruppe improvvisamente e l’embargo degli USA, invece, si intensicò, a Santiago de Cuba arrivò una donazione di cibo dall’Italia. Era un ragazzo, ma ascol-tava i discorsi dei grandi e lo venne a sapere. È riuscito a malapena a terminare il racconto perché un nodo alla gola lo ha fatto tossi-re. Quando si è ripreso, ha detto semplicemente: «Questa è la mia occasione per ricambiare quel gesto».La cosa sorprendente è che tra gli invitati al pranzo c’era Renato Forte, che in quegli anni era il rappresentante della Cooperazione Europea a Cuba e il principale responsabile della realizzazione di quella donazione. Solo quelli di noi seduti vicino al tavolo di Abel Tobías hanno visto l’anziano cooperante italiano avvicinarsi. Non potevamo sentirlo, ma Renato Forte ha detto qualcosa al nostro collega, che si è alzato, con le lacrime agli occhi, e si è sciolto in un abbraccio con l’uomo che aveva reso possibile quella donazione.La famiglia PogoloTra le storie più belle e drammatiche che si sono intrecciate tra Cuba e il Piemonte, c’è senza dubbio quella della famiglia Pogolotti. Fu all’inizio della Seconda guerra mondiale, nel 1939, con l’inva-sione nazista della Polonia, che Graziella, una bambina di appe-

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58CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE na 7 anni, sbarcò nella lontana isola caraibica. Era la nipote di un prospero e colto uomo d’affari piemontese che aveva fatto fortuna a Cuba e glia di uno degli arteci del Futurismo italiano, ma atti-vo antifascista, importante pittore e scrittore cubano che, all’epoca, viveva tra Torino e Parigi. Provo ad immaginare la Torino dei primi decenni del secolo scorso, con una vita culturale impetuosa: lo stu-dente Antonio Gramsci che, tra il 1913 e il 1920, occupò la softta di un palazzo ottocentesco in piazza Carlina oggi trasformato in un lussuoso hotel, diventando anni dopo il leader del movimento ope-raio torinese; immagino i poeti e i pittori ribelli del movimento futu-rista, non tutti di orientamento fascista, come sosteneva Marinetti; vedo la selezionata cerchia di intellettuali che riuniva la casa editrice di Giulio Einaudi, tra cui Cesare Pavese e Italo Calvino. La madre di Graziella era un’ebrea russa e i genitori temevano che la sua perma-nenza in Italia potesse essere pericolosa per la famiglia. Nata a Pari-gi, crebbe tra quella città, Torino, e la piccola Giaveno dove viveva la sua zia più cara. La sua lingua madre era l’italiano, sebbene par-lasse correntemente anche il francese. Riporto la narrazione dei fat-ti così come li racconta Graziella: «Non volevo andarmene in nes-sun modo. È stata un’esperienza particolarmente drammatica. Nel 1939 scoppiò la guerra e si pensava che l’Italia vi avrebbe presto pre-so parte. Le comunicazioni tra Francia e Italia vennero interrotte. Il treno espresso Parigi-Roma con fermata a Torino doveva cambia-re locomotiva al conne. Ricordo che i miei genitori non potevano attraversarla, così una guardia dovette condurmi per mano dall’al-tra parte». Tutto il mondo che lei conosceva (zii, cugini, amici, abi-tudini, paesaggio) fu improvvisamente sacricato. Quando arrivò a L’Avana non sapeva una sola parola in spagnolo. Non fu in grado di iscriversi a scuola no all’anno successivo. La ragazza, talentuosa per le lingue e perfezionista, rimase muta, incapace di parlare spa-gnolo per tre mesi. Quando cominciò, lo parlò subito correttamen-te. Oggi Graziella Pogolotti è un’importante intellettuale, saggista e critica d’arte. Ritornò per la prima volta a Torino nel 1952, in vacan-za, mentre frequentava la Sorbona di Parigi grazie a una borsa di stu-dio. Ma si sentiva già cubana. Ho avuto il privilegio di condividere con lei eventi e riunioni di lavoro. La sua è una voce sempre autore-

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59CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE vole che sa affrontare con chiarezza qualsiasi argomento. Sono anda-to a trovarla a casa sua, e abbiamo parlato dei suoi ricordi di Torino.Mi ha confessato che nella sua fertile immaginazione sentiva come propria la sofferenza del protagonista del racconto Dagli Appennini alle Ande, uno di quelli che nel libro Cuore si alternano nella lettu-ra del ttizio diario di Enrico, il ragazzo genovese che a soli 13 anni andò alla ricerca della madre in Argentina e che attraversò a piedi Buenos Aires, Rosario e Córdoba prima di arrivare in un piccolo pae-se vicino a Tucumán. «Con quel libro piangevo sempre tanto», mi ha detto. Nonostante Graziella avesse fatto il viaggio in compagnia dei suoi genitori, non fu privo di vicende drammatiche, sia in Fran-cia che a New York, città di transito. Sono curiosi gli eventi della vita: la signora Maria Luisa, che ci ha accompagnato durante la cerimo-nia nel cimitero di Giaveno, dove è sepolto il nonno, Dino Pogolot-ti, fondatore di un quartiere popolare de L’Avana che porta il suo nome e che fu il responsabile di tutto questo andirivieni geograco che lega così tanto l’Italia a Cuba, era proprio la cugina di Graziel-la. Maria Luisa aveva infatti trascorso la sua infanzia e la prima ado-lescenza a L’Avana e dopo la ne della guerra aveva fatto il viaggio al contrario: tornando in Piemonte e diventando di nuovo italiana.«Torino non era certo fascista. Per questo Mussolini evitò di visi-tare la città per circa dieci anni», scrive Marcelo Pogolotti.La glia e la piazza dei pargianiNon è quasi più possibile incontrare partigiani, i loro gli sono già anziani. Quando sono arrivato in città mi hanno raccontato di un partigiano che era stato sindaco di Collegno, sotto la cui ammi-nistrazione è stata dedicata una piazza a Che Guevara, se non l’uni-ca, sicuramente la prima in Europa. Quando nalmente si è allen-tato il lockdown, Rocco Sproviero, dell’Associazione Nazionale di Amicizia Italia-Cuba, ha organizzato un appuntamento con la glia del partigiano, in un tranquillo caffè della piccola città del-la cintura torinese.L’abbiamo trovata seduta a uno dei tavolini all’aperto. Era l’u-

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62CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE nica cliente. Il proprietario stava parlando con lei e, quando mi ha visto, sapendo chi ero e perché fossi lì, mi ha detto: «Amo Cuba, io e mia moglie ci siamo già stati tre volte». Aggiungendo, con un leggero fastidio: «Hanno esagerato con questo virus, non è così grave». «Non hanno esagerato, amico», ho risposto sorridendo. I piccoli proprietari di esercizi come il suo hanno subito pesanti per-dite a causa del lockdown, di fronte a un’apertura graduale che inizialmente non li includeva, sono addirittura scesi in piazza per protestare. La signora mi ha regalato l’autobiograa di suo padre, motivo del nostro incontro: Luciano Manzi (1924-2014), coman-dante dei famosi partigiani della Brigata antifascista Garibaldi (che raggruppava i comunisti, ma non solo), una di quelle che opera-vano nel Nord Italia. Per molti anni fu dirigente del partito, sena-tore e sindaco (1975-1989) di Collegno. Tiziana, così si chiama la glia, mi ha parlato a lungo del padre. Ricordo la passione nella sua voce e lo scintillio dei suoi occhi. L’irrinunciabile indumento che è diventato la mascherina ha una conseguenza piacevole: nal-mente ci guardiamo negli occhi, sempre, e abbiamo imparato a sco-prirvi i segni dell’intelligenza, della sincerità, del sospetto, dell’e-mozione o dell’indifferenza. Ora conosciamo le persone dal loro sguardo. Il partigiano Luciano aveva accolto con fervore il trionfo della “Repubblica Partigiana” a Cuba, a pochi chilometri dagli Sta-ti Uniti. Nella sua autobiograa ha scritto: «Avevo sempre segui-to da vicino le notizie dei giornali sulla guerra partigiana a Cuba. In essa trovai molti dei nostri valori e ideali». Per questo, in quali-tà di sindaco, propose con insistenza, più e più volte, che una del-le piazze della sua città fosse intitolata a Che Guevara. E ci riuscì.Il monumento al Che si trova nei pressi di una rotonda, e ci sia-mo andati. Si compone di tre massi portati dalle montagne che die-dero rifugio ai partigiani: in quello centrale, il primo a essere posa-to, compaiono i nomi dei combattenti della guerriglia boliviana. In un altro, la sagoma in metallo del Che presa dalla famosa foto di Korda. Poco prima di ripartire, la Brigada è riuscita a visitare il luogo. I ragazzi sono stati accolti dall’attuale sindaco e sono sta-ti fotografati davanti al monumento. Ricordo che il dottor Miguel Acebo Rodríguez, originario di Santa Clara, nella cui piazza prin-

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64CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE cipale si trovano i resti mortali di Che Guevara e dei suoi compa-gni in Bolivia, si è molto commosso.Ma chi è il dottor Acebo? Gli ho chiesto di raccontarmi di come venne arruolato per l’emergenza in Italia: «Senza esitazione dis-si di sì, prima di tutto perché sono un giovane specialista e questa missione per me è una sda professionale. Non solo perché mi dà soddisfazione dal punto di vista umano, ma anche perché mi fa cre-scere professionalmente. E poi, nessun medico può rimanere tran-quillo a casa sua se sa che ci sono migliaia di persone che muoio-no, nessun medico può vivere serenamente così, almeno non io».Ha due specializzazioni: è medico di famiglia e pneumologo, ed è stato in Venezuela dal 2008 al 2014. Sua moglie è una parrucchie-ra, si chiama Lisandra Rivero López. Hanno una glia di 4 anni. «Le cose si complicano – dice preoccupato il dottor Miguel Acebo, che si occupa della terapia respiratoria – perché stiamo ricevendo casi di tracheotomia, ventilazione meccanica, polmonite, pazien-ti che arrivano con una diagnosi di media intensità, la situazione è diventata più difcile, un paziente può rapidamente evolvere da uno stato lieve a uno moderato e poi a grave. Devi monitorar-lo costantemente, in un batter d’occhio può aggravarsi». Questa spedizione della Brigada Henry Reeve era atipica: sebbene in origi-ne il ne delle nostre missioni dovesse essere quello di soccorrere popolazioni in zone di emergenza naturale ed epidemiologica, qui stavamo in realtà praticando una medicina secondaria, tipicamen-te ospedaliera. Ma con il coronavirus nulla è tipico. Giovanna e Marna, indimencabiliIl mondo è sottosopra. Il dottor Acebo si è preso cura di una paziente speciale: Giovanna Butti, una nonna di 94 anni. E dell’a-sintomatica Martina, infermiera e ora paziente. Martina era pra-ticamente entrata a far parte della nostra squadra. Quando il dot-tore arrivava al mattino le chiedeva un resoconto, perché lei era stata attenta durante la notte allo sviluppo della malattia delle sue compagne di stanza, soprattutto delle più anziane. Come infermie-

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66CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE ra in un centro che si prende cura di pazienti gravi, ha sviluppato un istinto speciale nell’assistere le persone bisognose. E sebbene lei stessa fosse ostinatamente positiva al , rimaneva attenta. Anche per questo poteva valutare il lavoro dei nostri medici, che considerava eccezionali: «Il rapporto che instaurano con i pazien-ti è unico», ha affermato.Ricordo questa scena: Martina che si avvicina al letto di Giovan-na, la paziente di 94 anni, la stessa che sgattaiolava con lei, Maria Pia e il dottor Miguel attraverso la porta sul retro per prendere un po’ di sole in un piccolo e appartato cortile interno, e inizia a can-tare una canzone. L’anziana l’asseconda e poi un’altra signora, Antonia Orlando, 80 anni, completa il trio. Lo spettacolo è com-movente. La canzone diventa un gioco per bambini: Martina can-ta e cita il nome di un animale, Giovanna fa il verso corrisponden-te: una mucca, un gatto, un cavallo, e arriccia ancor di più il suo naso già rugoso per fare il coniglio. Il suo controcanto è così pre-ciso e immediato, così malizioso, i suoi occhi così giovanili, che la scena irradia una tenerezza indescrivibile. È completamente luci-da: non è che ritorni all’infanzia a causa della sua età, non l’ha mai persa, è un’adulta bambina ancora oggi. A 94 anni, malata di  e di altre malattie croniche, ha mantenuto la sua origina-ria giovialità. Non ho avuto bisogno di guardare i miei compagni per sapere cosa stessero provando. Ancora turbati, abbiamo fatto delle foto con loro, con i dottori Julio, Miguel e la giovane italia-na Nasim Taheri, con l’infermiere Ricardo e con Michele. Aspet-tavano Miguel ogni mattina, agitati nché non lo vedevano appa-rire: era il loro medico.Il giorno del compleanno di Miguel, Martina ha preparato il suo regalo con la complicità di Michele Curto. Aveva ordinato la stampa di due foto. In una compariva la paziente Maria Pia con il dottore, ma l’altra catturava un momento magico tra Miguel e Gio-vanna, che non può essere descritto a parole, fatto di gesti, sguar-di e sorrisi. «È il più bel regalo che ho ricevuto in Italia», ha detto Miguel. Le foto erano avvolte in un doppio strato di pellicola, così da poter eliminare il primo e disinfettare il secondo.Anch’io andavo a trovare Giovanna, Martina e Maria, ogni vol-

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67CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE ta che entravo nella zona rossa con i miei compagni. Un giorno, sorpreso, ho saputo che Martina leggeva i resoconti quotidiani che pubblicavo sul mio prolo Facebook. Glieli traduceva “l’ami-co” Google, che ovviamente distruggeva i miei sforzi di stile, ma almeno così sapeva delle attività e delle riessioni quotidiane del-la Brigada. Ho scoperto, a mia volta, che anche lei scriveva sul suo prolo dei bei racconti, che sempre Google ha tradotto per me. A volte ci scrivevamo, seguendo la stessa procedura. È stata ricove-rata per quasi tutti i tre mesi in cui siamo stati a Torino, no alla chiusura dell’ospedale, e sebbene non presentasse sintomi, tutti i tamponi risultavano positivi.Quando alla ne è stata trasferita, ancora positiva al , un folto gruppo di medici e infermieri cubani e italiani ha voluto salutarla, a distanza, nel suo breve transito dalla porta riservata ai pazienti all’ambulanza che l’aspettava. Le ho gridato il mio nome perché mi aveva visto sempre solo con la tuta protettiva e, natural-mente, non poteva riconoscere la mia faccia. Ed è accaduto qualco-sa di inaspettato: è saltata verso di me con le braccia aperte, pronta ad abbracciarmi. Ho fatto qualche passo indietro e quelli che sta-vano guardando la scena le hanno urlato di fermarsi perché era ancora positiva. All’improvviso, compresa l’inappropriatezza del gesto, si è fermata di colpo. Abbiamo riso tutti, anche lei. Ma lei era imbarazzata quanto me. Così quella sera ho raccontato quanto accaduto sul mio prolo Facebook concludendo la storia con que-ste parole: «So che leggerà queste righe e voglio dirle che anch’io avrei voluto abbracciarla. Ma ci sono abbracci che non sono sici. Noi, tutti, abbiamo sentito il suo».La cià e i suoi ciadiniTorino, la città, ci ha rivelato la sua bellezza poco a poco. Abbia-mo scoperto i suoi interminabili portici, le sue belle piazze, cono-sciuto un po’ meglio la sua gente, anche se non abbastanza. Abbia-mo visitato il Museo del Cinema nell’imponente Mole Antonelliana e il Museo Egizio con l’aiuto dei volontari dell’Agenzia per lo Scam-

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70CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE bio Culturale ed Economico con Cuba. L’Italia, il Paese delle cit-tà incantate, dei monumenti, dell’amore... Non eravamo venuti per passeggiare. Il Paese che milioni di turisti visitano e conosco-no per i suoi monumenti, potevamo vederlo solo attraverso la sua gente, i volontari che ci accompagnavano, i loro medici e infer-mieri, i loro pazienti...Dalla nestra della stanza, osservavo assorto i movimenti dei miei vicini. All’inizio era tutto chiuso. La città si era fermata. Ma il lockdown era nito con il nire della primavera, e anche se l’e-state tardava ad arrivare, apparve nalmente quando riaprirono i caffè e le ragazze in ore abbandonarono il loro pudore inverna-le. Su un balcone, un giovane si spalmava la crema solare. Con la mia macchina fotograca scoprivo le gemme della vita che nasce-vano come le foglie sugli alberi: erano appena sbocciate, ma in pochi giorni mostrarono tutto il loro splendore. Su un piccolo balcone di un settimo o ottavo piano di un vecchio edicio, due innamorati avevano apparecchiato un tavolo e si erano seduti uno di fronte all’altro, pranzando come a un picnic. Gli abitan-ti di Torino cercano il sole con lo stesso piacere con cui noi cer-chiamo l’ombra a L’Avana.Alcuni dei volontari hanno ripreso il loro precedente lavoro e la loro presenza alle OGR si è fatta sporadica. Voglio presentarvi una delle ragazze della Brigata di supporto che dal primo giorno, e volontariamente, ci ha accompagnato come traduttrice e assi-stente. Si chiama Yanina Palacios, è argentina, ha 33 anni (me lo ha detto senza che glielo chiedessi) e da quattordici anni vive in Italia. Ho saputo che dedicava tutto il suo tempo libero, che per mesi ha voluto dire semplicemente tutto il suo tempo, a sostenere il nostro lavoro. Ma a un certo punto il suo di lavoro, con il quale si guadagna da vivere, è ricominciato. Arrivava la mattina e se ne andava a mezzogiorno, quando arrivava la sostituta. Riposava un po’ a casa e poi andava a lavorare al bar alle quattro. Sì, lavorava in un bar, come cameriera. «Ho studiato qui, in parte lì e in parte qui, sono venuta con una borsa di studio nel 2007, e poi ho deciso di restare», mi ha raccontato davanti alla porta del bar, dove sono andato a trovarla per intervistarla, dopo aver chiesto al titolare,

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71CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE un uomo di mestiere, attento e loquace, se mi concedeva qualche minuto con lei per l’intervista.È un bar in stile irlandese solitamente molto frequentato, ma la clientela lentamente stava tornando alle vecchie abitudini. «Ho stu-diato economia, amministrazione e gestione aziendale. Non lavoro in quel settore per diversi motivi: prima non stavo bene nell’azien-da in cui mi trovavo, non mi piaceva l’ambiente; poi sono rimasta senza lavoro, e nalmente ho trovato questo, e mi piace. Mi trovo bene nel bar, mi piace il contatto con le persone, è un’altra vita, è più difcile sotto certi aspetti, ma non mi dispiace, anche se è dif-cile condurre una vita normale, con le ore che facciamo di not-te. In questo periodo, dopo il lockdown, lavoriamo no all’una di notte. Prima nivamo tutti i giorni alle tre e mezza aprendo alle sei del pomeriggio, e nei ne settimana chiudevamo alle cinque del mattino. Adesso apriamo alle quattro del pomeriggio e chiu-diamo all’una a causa della pandemia, ma l’orario normale sareb-be molto più tardi. Prima di chiudere puliamo e riordiniamo tutto in modo da poter rientrare il giorno dopo e aprire rapidamente, altrimenti dovremmo venire alle due del pomeriggio».Il bar è piccolo, ma molto conosciuto nella zona. Sul bancone ci sono banconote di molti Paesi e due di Cuba: una da un peso, con l’immagine di José Martí, e un’altra da tre, con il volto di Che Guevara. «Abito qui vicino, da sola, in un appartamento di una stanza, soggiorno e bagno; sono in aftto. È difcile comprare una casa, ma col tempo ci riuscirò...». Perché fai volontariato in ospe-dale? «Ho un conoscente che mi ha detto che c’era bisogno di una mano, per aiutarvi col problema della lingua, in quel momento ci si sentiva inutili, eravamo rinchiusi tutto il tempo, ci conoscevamo tramite l’ospedale. Mi sono detta, mi offro volontaria. E ho trova-to il lavoro abbastanza soddisfacente. Ora vado un po’ meno, pos-so andare solo la mattina. Con i cubani mi sono trovata bene, sono persone di buona volontà che vengono a fare il loro lavoro, con un sorriso tutti i giorni nonostante la stanchezza, è una bella espe-rienza, si impara sempre. Continuerò a lavorare lì, un po’ meno, ovviamente. Ma quello che abbiamo preso con voi è un impegno che vogliamo portare no in fondo. Ho già detto che program-

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73CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE merò con mia madre un viaggio a Cuba per ritrovarci lì durante le prossime vacanze».La pandemia ha rivelato l’esistenza di una gioventù desidero-sa di fare cose, di praticare la solidarietà, una gioventù non espli-citamente politicizzata che la tragedia ha riunito e che, in un cer-to modo, ha risvegliato.IleanaPermettetemi di presentarvi anche una ragazza italo-cubana, una delle volontarie dell’Ospedale -OGR dell’ASL Città di Tori-no. La sua risata è forte, schietta, aperta come il mare che abita in lei. Ileana Jiménez Calá è una mulatta disinvolta a cui il clima e le usanze del Nord Italia stanno strette come un paio di scarpe troppo piccole. «Quando arrivo a Cuba» mi dice «sono di nuovo me stes-sa, parlo più forte, gesticolo, rido molto». Si è laureata in musica alla Scuola Nazionale d’Arte e poi all’Università delle Arti de L’A-vana, con specializzazione in Direzione Corale. È stata una delle dodici fondatrici del coro Exaudi, uno dei gruppi d’avanguardia della musica corale cubana, e docente presso la Escuela Nacional de Música. Nel 1998 ricevette una borsa di studio per musica vocale da camera presso il Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino. Era un sogno a lungo atteso. Lì ha conseguito la laurea in quella spe-cialità e ha conosciuto colui che da allora è suo marito.«Quando andavo al Conservatorio», racconta la Cecilia Valdés di quei giorni, «passavo davanti al suo negozio e lui, come mi rac-contò in seguito, si sentiva attratto da quella ragazza che andava e veniva tutti i giorni. Finché non mi ha fermata e abbiamo inizia-to a parlare. Non appena ha scoperto che studiavo musica, mi ha invitata al Teatro Regio, uno dei teatri più importanti della città. Quello è stato il nostro primo appuntamento. Mi portava ai musei, a teatro. E mi ha conquistata. È stato così che ho deciso di stabili-re la mia vita qui».La sua carriera professionale ne ha sofferto, ovviamente. La legge del mercato non ha lasciato via d’uscita. Fa l’interprete free-

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74CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE lance, ma la sua vera specializzazione ha caratteristiche ben preci-se: musica vocale da camera, prevalentemente ottocentesca, domi-nata dalla scuola tedesca e quindi quasi sempre cantata in quella lingua. Con suo marito ha fondato il Centro Studi Italia Cuba per stare più vicino al proprio Paese d’origine, per diffonderne la cul-tura in tutte le sue manifestazioni, non solo la musica, ma anche la letteratura, il cinema e le arti grache, e porre ne agli stereotipi: il rum, le mulatte, il tabacco... «Anche la cultura è Rivoluzione», afferma convinta. «Cuba mi manca tanto, tanto, tanto, perché vivo nel Nord Italia, che è un posto freddo, e mi piace il sole... Quan-do vado a Cuba sono un’altra persona, qui vivo concentrata nello studio, nel lavoro. Ho bisogno del rapporto con le persone, i cuba-ni hanno qualcosa che non ti fa sentire triste. Mi manca il cibo, il mare, la famiglia... Ad un certo punto tornerò a Cuba, lui lo sa. Mio marito è un uomo del Sud Italia, anche se vive a Torino da quando era bambino, ed è abituato a relazionarsi di più con le persone».Nel 2019 il suo centro culturale ha iniziato una collaborazione con la Casa Editora Abril di Cuba e a febbraio del 2020 ha parte-cipato alla Fiera del libro de L’Avana. Gli amici li avevano avverti-ti del rischio che correvano a tornare in Italia, ma non lo presero sul serio. All’arrivo, hanno scoperto con orrore che la gente mori-va davvero per la pandemia: «All’inizio tutto questo succedeva a Milano, non pensavamo arrivasse a Torino. Vedevamo che il bilan-cio delle vittime aumentava continuamente, alle dodici c’erano cin-quanta morti e alle sei del pomeriggio erano già cento, alle dieci di sera erano duecento. Sembrava impossibile. Sono rimasta mol-to colpita nel vedere in televisione la slata di camion militari che trasportavano i cadaveri in silenzio, dopo mezzanotte; non c’era la possibilità di cremare così tanti morti, quindi venivano portati in altre città. Quella cosa mi ha scossa. Mi sono detta: se solo potessi fare qualcosa, ma come? Non si poteva uscire di casa».Poi sono arrivati a Torino i medici e gli infermieri cubani.«Qualche giorno dopo mi hanno chiamata perché c’era bisogno di interpreti. Mio marito ha ricevuto il messaggio, ci siamo guar-dati negli occhi e io ho detto: sì. Abbiamo adottato tutte le misure protettive anche in casa, dormivamo in stanze separate. Ho dovu-

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75CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE to iscrivermi alla Croce Rossa e fare un breve corso per i volontari. Quando sono entrata sembravo una bambina al suo primo giorno di scuola. I colleghi che erano già lì mi hanno spiegato cosa avrei dovuto fare. Dopo alcuni giorni mi hanno chiesto se ero disposta a entrare nella zona rossa, a fare da interprete per i medici. Que-sto mio marito non lo sapeva. Sono tornata a casa e gli ho detto: questa è la situazione. Ci siamo guardati negli occhi e gli ho detto: io vado. Sono entrata, è stata un’emozione pazzesca. Poi non sono più andata, non è stato più necessario, ma ora sono qui».Ci ha interrotto l’arrivo di un medico cubano. Ileana si è alzata e gli ha preso la temperatura. Poi, lei che è tutta risate e cordialità, mi ha detto seria: «Sono cambiata tanto. Devo dirtelo: sono cam-biata tanto. Forse non è bello che io lo dica, ma devo dirlo: sono cambiata umanamente, perché per me è stata una sorpresa. Ero abituata ad andare in ospedale solo se stavo male, se avevo qual-cosa, non ero mai stata da uno specialista. Per me, che vivo qui da più di vent’anni, è stata una sorpresa. Le poche volte che sono sta-ta in ospedale, il modo di fare dei dottori era distaccato, ti chiede-vano cos’avevi, ti davano la cura, pagavi e salutavi. Vedere i medi-ci cubani in una situazione così difcile, pronti a tutto, che non guardano se sei ricco o povero, non pensano a quello che gli devi dare per essere qui, vedere che vengono a salvare vite, questo mi ha cambiato. Ho cominciato a vedere le cose in modo diverso, mi sono messa nei panni del paziente e del medico, ho cominciato a vedere la grande disponibilità di questi uomini, la loro grande professionalità, anche questo, inconsciamente, mi dava sicurezza, perché mi dicevo: sì, se mi succede qualcosa so che sarò in buone mani, so che faranno di tutto per salvarmi. Sono cresciuta umana-mente. Quando traduco durante le riunioni degli specialisti che si tengono ogni giorno, vedo come trattano anche l’aspetto psico-logico del paziente, vedo i problemi che esistono nelle famiglie, anche questo ti cambia. Sono molto orgogliosa di essere cubana».La Brigada medica cubana di Torino, come ho detto, abitava in uno degli edici del Villaggio Olimpico dei Giochi invernali 2006. La nostra struttura si trovava all’incrocio di due strade: via Andrea Vochieri, la meno frequentata e più breve (è lunga un isolato) dalla

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76CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE quale entravamo, e via Paolo Borsellino, più ampia, con al centro le rotaie del tram attualmente dismesse, che dà sull’ingresso del-le OGR. Abbiamo menzionato più volte questi nomi tra i cubani. Chi erano? Le mie conoscenze sono superciali, ma voglio sottoli-neare alcuni fatti interessanti. Perché Vochieri (1796-1833) era un liberale italiano, contemporaneo dei primi patrioti per l’indipen-denza cubana e afne alle loro idee. Partecipò al movimento rivo-luzionario liberale e nazionalista degli anni Venti del XIX secolo che si diffuse in tutte le nazioni mediterranee europee e nel 1821 dovette lasciare momentaneamente “gli stati sabaudi” e stabilirsi a Barcellona; negli stessi anni il nostro Félix Varela (1788-1853), deputato per Cuba presso le Cortes di Cadice, ugualmente inuen-zato dalle idee liberali del tempo, chiese nel 1822 l’autonomia e il riconoscimento dell’indipendenza delle colonie americane, la riforma dell’istruzione e l’abolizione della schiavitù. Condannato a morte con il ritorno dell’assolutismo nel 1823, dovette andare in esilio negli Stati Uniti, dedicandosi da allora a promuovere l’ide-ale dell’indipendenza cubana. Anche Vochieri tornò in Italia, nel 1823, ma nel 1833 fu arrestato, condannato a morte e fucilato dai monarchici piemontesi.L’altra gura che dà il nome alla via che costeggia il lato sinistro del palazzo è più nota. Si tratta di Paolo Borsellino (1940-1992), uno degli eroi più apprezzati, insieme a Giovanni Falcone, della lotta contro la maa. «In Italia tutti li conoscono e li apprezzano», mi ha detto Marilena, una giovane donna calabrese che ha dato un contri-buto come interprete volontaria dei medici cubani a Torino e che, insieme agli epidemiologi, controllava le modalità con cui si metteva-no e toglievano le tute protettive le persone che entravano e usciva-no dalla zona rossa. «Furono loro a iniziare il primo mega processo contro la maa nella storia d’Italia», ha aggiunto Marilena. Un’au-tobomba è esplosa nel 1992 di fronte alla casa della madre di Paolo Borsellino, a Palermo, uccidendo lui e cinque delle sue guardie del corpo. Anche Marilena viene da una regione in cui la criminalità organizzata è dilagante e le dà fastidio essere etichettata per questo:«Sono nata in un paese piccolissimo – siamo circa 5.000 abitan-ti – sulle montagne della Calabria, che però dista solo un quarto

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77CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE d’ora dal mare. Al Sud le persone sono più aperte, più ospitali. Il concetto di famiglia (e di cibo) è molto forte. Della maa non si parla, non si raccontano storie, ma siccome in paese ci sono poche persone, tutti si conoscono, puoi sapere più o meno chi è aflia-to e chi no. Però non gli dici niente, e lui non dice niente a te. E quando si verica una morte violenta, si sa che è a causa di quello. Non succede spesso, però sì, ho amiche i cui genitori sono morti in quel modo. Quel tipo di persona si comporta bene in paese e la gente si sente al sicuro; si prendono cura degli abitanti del pae-se per prendersi cura di se stessi. Adesso abbiamo in Calabria un procuratore che combatte come Borsellino e Falcone: il magistra-to Nicola Gratteri».Sono trame di potere transnazionale che comunicano sotto-terra. Le vie intorno alla nostra residenza portano nomi signica-tivi: uno che rappresenta il liberalismo delle origini, della libertà e dell’uguaglianza, e l’altro che rappresenta la lotta alla sua dege-nerazione storica. La Brigada medica cubana percorreva ogni gior-no entrambe le vie.Alejandro, Luis Miguel e la paziente numero 100A L’Avana c’è un matrimonio in sospeso. Lo sposo non sa come o quando potrà sposarsi, ma di sicuro ha almeno 37 nuovi ospiti (più uno: Lucas Alejandro, che ancora deve nascere). La sua sto-ria sembra provenire da uno delle centinaia di meme che circola-no in rete. Il dottor Alejandro Bombino Rodríguez, 29 anni, spe-cialista in Medicina di Famiglia e Dermatologia, aveva già ssato la data del matrimonio e fatto le pubblicazioni, quando la pande-mia ha congelato la vita dei due innamorati. Come se non bastas-se, lo sposo è partito per l’Italia. Non sono riuscito a trattenermi e gli ho chiesto: «La vita ti ha dato una seconda possibilità?». Riden-do di gusto, ha risposto: «Nooooo!» e ha aggiunto: «Aspettiamo un glio, è incinta di 20 settimane». Lei si chiama Laura Borges Moreno ed è fotoreporter dell’agenzia Prensa Latina. Ho sfoglia-to la sua pagina Facebook e ho trovato questa pubblica dichiara-

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80CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE zione d’amore che dissipa ogni dubbio: “Sono la donna più fortu-nata del mondo perché grazie a Dio ho trovato la persona che mi accompagnerà per il resto della mia vita”. «La mia sposa è incinta e sono io che mantengo la famiglia», ribadisce, «vivo con lei e con mia suocera che è anziana, ma ho sempre tenuto in conto che se mi avessero chiamato sarei stato immediatamente disponibile. La mia famiglia è preoccupata, soprattutto in una situazione come questa, di incertezza. Erano d’accordo, ma ho dovuto promettere loro che sarei stato attento».Anche il dottor Luis Miguel Osoria Mengana ha 29 anni e due specializzazioni: Medicina di Famiglia e Chirurgia Generale. È nato e cresciuto nel comune di Manuel Tames della provincia più orien-tale di Cuba, Guantánamo, ed è stato cresciuto dai nonni materni. Lei era la custode dello Zucchericio Centrale attorno al quale ruo-tava la vita della città. Il nonno era veterinario e ispettore agricolo. Un giorno, al glio dei suoi vicini, di 7 o 8 anni, fu diagnosticata la leucemia. I vicini, nelle piccole città, fanno parte della famiglia. Luis Miguel era in terza media, non aveva ancora capito quale fos-se la sua vocazione, ma forse una volta disse, e il suo vicino di casa lo sentì, che sarebbe diventato medico. La verità è che il bambi-no malato espresse il suo «più grande» desiderio (così disse), che Luis Miguel studiasse medicina perché potesse curarlo. Questo lo colpì molto e lo prese sul serio. Qualche anno dopo si è laureato e da allora si è prodigato afnché il suo vecchio vicino ricevesse le migliori cure. Oggi sta bene nonostante la malattia e si è laureato in ingegneria informatica. Ma il dottor Luis Miguel Osoria vive e lavora a Holguín, lontano dal suo Paese natale. «Non lo vedo molto perché ci vado poco, ma ci teniamo in contatto», mi ha raccontato.Osoria è magro e non molto alto, sembra più giovane della sua età. Tuttavia, basta parlare un po’ con lui per capire che è un uomo maturo con un’insaziabile sete di conoscenza. Sulla sua missione in Italia ha commentato: «Inizialmente pensavo che sarebbe sta-to difcile, sapevo che non sarei andato in un ospedale chirurgi-co, e mi preoccupava non sapere se sarei stato utile, in cosa avrei potuto contribuire, ma anche se le infezioni erano prevalentemen-te cliniche, non mi erano sconosciute, infatti ho visto tre pazienti

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81CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE chirurgici e ho potuto seguirli dopo l’operazione no a quando non sono stati dimessi. Il 90 per cento dei chirurghi non è mol-to interessato alla parte clinica e, fuori Cuba, ancora di meno: si dedica solo alla parte operatoria, che è senza dubbio quella che ci interessa di più, che ci piace, ma io ho sempre seguito il criterio secondo cui per essere un chirurgo devi prima di tutto essere un medico, ed essere un medico signica essere un buon clinico, se hai questa visione tutto diventa più facile e ti rende uno speciali-sta migliore. La chirurgia generale è la madre di tutte le chirurgie, ma ora voglio studiare la chirurgia senologica e poi quella endova-scolare. Questo per ora».Mi ha elencato le cose che gli ha dato la sua permanenza a Tori-no. Da una parte, quelle puramente tecniche; dall’altra, quelle uma-ne: ha fatto le emogasanalisi, ha imparato a fare diagnosi a partire dagli ultrasuoni che effettuava lui stesso, ha lavorato con apparec-chiature che aveva visto solo in televisione; si è fatto anche degli amici, qualcosa che non immaginava sarebbe successo così facil-mente. E si è speso per gli altri in una maniera incredibile, ma che forse lui non considerava eccezionale. Ricordo Elena Pinzario, una paziente rumena di 52 anni che era stata operata e subito trasferita al nostro ospedale. Il dottor Osoria si è fatto carico di seguirla. La signora rumena è emigrata in Italia in cerca di lavoro, ma il mari-to e la glia sono rimasti in Romania. Dal suo letto nella zona ros-sa comunicava con il medico via cellulare, anche quando non era di turno: lo chiamava per un malessere o per un dolore improvvi-so, o per un medicinale. A volte gli chiedeva, per favore, di torna-re nella zona rossa perché aveva bisogno che lui vedesse qualco-sa che la turbava. E il dottor Osoria tornava all’ospedale, a pochi isolati dalla nostra residenza, indossava di nuovo la sua fastidiosa tuta protettiva ed entrava. La consultazione poteva durare minuti o molto di più, ma la sua mano su quella di Elena ha fatto il mira-colo. Quando la mamma di Elena è morta, in Romania, il dottor Osoria fu il primo a saperlo. Il caso ha voluto che Elena fosse la cen-tesima paziente dimessa dall’Ospedale -OGR dell’ASL Città di Torino. L’abbiamo aspettata all’uscita. Era molto emozionata e ringraziò l’Italia. Poi è arrivato il “suo” medico e lei lo ha abbrac-

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84CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE ciato. «Questo è il mio dottore» ci ha detto indicandolo. Un gior-no siamo andati a trovarla nel suo piccolo appartamento. E ci ha raccontato la sua storia.Una storia complicata. I ricordi della sua infanzia sono meravi-gliosi. Ma suo nonno era un oppositore del socialismo che tentò di resistere in Romania. Gli espropriarono l’azienda d’olio e le sue terre. Ciononostante, lei studiò pedagogia ed economia all’univer-sità e si sposò con uno studente della Facoltà di Energia e Petro-lio. Ebbero una glia.Nel 1989, a 27 anni, il paese abbandonò il socialismo e lei diven-tò capo del dipartimento economico di una grande azienda. I suoi collaboratori erano tutti più grandi di lei. Era felice. «Avevo stu-diato molto» dice «e avevo un ottimo stipendio. Pensavo che sarei andata in pensione e che avrei portato i miei nipoti a fare viaggi dappertutto, che avrei fatto visita a Babbo Natale. Quello era il mio sogno». Ma la crisi economica si è messa di mezzo.All’età di 48 anni, nel 2009, il presidente della Repubblica dimez-zò gli stipendi e lei capì che le stavano rubando il suo denaro. Suo marito lavorava in Medio Oriente e lei decise di venire in Italia.«Mia zia mi consigliò di studiare infermieristica così da poter lavorare in un ospedale. Avevo 48 o 49 anni e ho pensato: ricomin-ciare di nuovo tutto daccapo? Ma l’unica cosa che mi interessava era guadagnare soldi per tornare a poter mantenere la mia fami-glia. Così ho ricominciato un’altra volta da zero. Ho cominciato a informarmi su come fare per iscrivermi. Sono arrivata alla scuola di infermieristica il lunedì, dopo essere arrivata sabato a Padova per il colloquio. Ed è lì che è cominciata la fase più difcile, perché di notte studiavo e di giorno lavoravo. Così per due anni. In quei due anni ho iniziato ad avere dolori articolari, perché in questa parte d’Europa, dove c’è il mare Adriatico, c’è molta umidità. E ho pen-sato che dovevo trasferirmi in una regione dove non c’era il mare. Così ho cercato lavoro a Torino. Ho lavorato in diversi ospedali e sono stata contagiata dal -. Non so come sia successo, per-ché ho rispettato tutte le regole. A Torino condividevo con un’a-mica un appartamento più grande, in modo che le nostre famiglie e gli amici potessero visitarci. Quando sono andata all’Ospedale

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85CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE Martini perché mi facevano male i reni, non avevo nessun sintomo di . All’inizio i test erano negativi, ma il dolore continuava, no a quando un tampone non è risultato positivo. Ho iniziato a respirare male e con il  è arrivata la tragedia. Hanno dovuto operarmi. Alla ne mi hanno portato alle OGR. Per un periodo ho lavorato all’Ospedale Cottolengo e ho protestato, mi sono det-ta: perché alle OGR? Ma poi ho conosciuto queste persone mera-vigliose. Il primo che ho incontrato è stato Miguel [Acebo], che mi ha detto: sono uno pneumologo cubano. Ah, fantastico, ho rispo-sto, poi ho parlato con un’amica neurologa e le ho detto che mi avevano mandato alle OGR, e lei mi ha detto: stai tranquilla per-ché lì è arrivata una squadra di medici cubani e sono molto bra-vi, non preoccuparti. Se hai problemi chiamami, ma stai tranquil-la. Da quando sono arrivata mi hanno curata il dottor Miguel e il dottor Luis Miguel, che potrebbe essere mio glio. Il mio tampo-ne è di nuovo negativo».È tornata nel suo appartamento il 9 giugno, ma l’8 era morta sua mamma. La conversazione è durata un’ora e mezza. Elena mi ha confessato che sta scrivendo un libro sulla sua vita. Ha chiesto a Luis Miguel di alcuni farmaci e di alcune procedure. Ci siamo scambiati i nostri indirizzi email. La vita va avanti ed Elena prima o poi tornerà in Romania per riunirsi con sua glia e suo marito.Lei, come ho detto, è stata la centesima paziente dimessa dal nostro ospedale. Pertanto, quel pomeriggio, in una cerimonia solenne, è toccato al dottor Osoria Mengana appendere il primo nastro bianco sull’albero della vita. Non era un nastro qualsiasi. La mamma di Michele Curto, ancora una volta, ha ricamato il nume-ro 100 con un lo rosso sulla striscia bianca. Ma che cos’è l’albero della vita? Tutti noi che siamo stati in Africa durante l’epidemia di Ebola abbiamo scoperto questa tradizione e l’abbiamo adottata con entusiasmo. In ogni centro per la cura dell’Ebola dove lavo-ravano i cubani veniva scelto un cespuglio e su di esso venivano appesi dei nastri colorati: ogni nastro era una vita salvata, e quelli neri rappresentavano le vite perse. Durante i primi mesi, l’albero della vita aveva più nastri neri di qualsiasi altro colore. Successiva-mente, a poco a poco, si riempì di nastri rossi, bianchi, gialli, blu...

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88CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE Arrivati a Torino, i membri della Brigada che erano stati in Africa occidentale hanno proposto alle autorità ospedaliere di adottare questo rito. Michele Curto ha scelto con le autorità del Comune un albero adatto. A Torino si è deciso di appendere solo nastri bianchi per ogni paziente dimesso. Quando è stato inaugurato e appeso il primo nastro – messo insieme dai dottori Livigni e Guer-ra – hanno partecipato il governatore della Regione e il console generale di Cuba a Milano (per il Nord Italia) Llanio González. I nastri non venivano messi subito, si aspettava che alcuni pazienti venissero dimessi e si celebrava un piccolo rito a cui partecipava-no i direttori e tutti i medici e gli infermieri dell’ospedale. Ogni nuovo rito dell’albero della vita è stato un momento di gioia e di fratellanza. Il primo paziente a uscire è stato anche il primo a entrare. L’ho visto arrivare, a testa bassa, sorretto da un infermie-re dell’ambulanza, vestito da capo a piedi con la tuta protettiva. È stato il primo paziente dell’ospedale da campo e arrivava da un altro ospedale con un test negativo. È stato messo nel settore del-le quarantene in attesa della seconda e ultima prova. Quel posto, ancora senza pazienti, doveva essergli sembrato gigantesco nei primi giorni. Ma le vie che trova il destino sono imprevedibili. Il malato parlava spagnolo e presto lo sciame dei cubani lo circon-dò. A volte, se il pranzo tardava – e questo ha cominciato ad acca-dere soprattutto quando i pazienti più gravi hanno occupato le prime stanze – protestava con rabbia, un segnale positivo del suo stato di salute. Chi usciva dalla zona rossa parlava appena di lui, le conversazioni si concentravano sui casi più complicati. E quasi ho dimenticato la sua presenza.Mimmo Pinna, 56 anni, è stato il primo a essere dimesso. L’ho avvicinato all’uscita dall’ospedale dove l’ambulanza lo aspetta-va per riportarlo a casa, e lui ha parlato dei suoi sentimenti sen-za reticenze. «Congratulazioni, come si sente?» è stata la mia uni-ca domanda. Ma lui ha voluto dire di più: «Molto bene. I medici sono molto professionali. Sono molto, molto felice di essere guari-to. Sono stato trattato davvero bene. Ho potuto parlare molto con i cubani perché parlo spagnolo, sono molto professionali, molto simpatici e hanno un grande cuore».

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89CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE I “doganieri” della zona rossa e gli amori di MauroGiocavano, si prendevano in giro come ragazzi. Ma nessuno dubitava della serietà con cui prendevano il loro lavoro. I due epi-demiologi della Brigada hanno avuto esperienze simili. Adrián Ramón Benítez Proenza partecipò volontariamente, durante il ser-vizio militare, alla guerra in Angola, e René Aveleira Cutiño tra-scorse cinque anni offrendo le sue conoscenze mediche al popolo venezuelano da cui ha imparato tanto. I due hanno affrontato il più letale dei recenti virus, l’Ebola, in Africa occidentale. René in Sier-ra Leone e Adrián in Liberia. Si sono formati insieme all’Instituto de Medicina Tropical, e sono poi andati in Paesi vicini. Successivamen-te sono tornati nelle loro città natali a Cuba: Adrián a Báguanos, Holguín, e René a Manatí, Las Tunas. Poco tempo dopo, il desti-no, per mano dell’Unità Centrale per la Cooperazione Medica, li ha riuniti in una breve missione composta di sole due persone, su isole così distanti dalla nostra che il viaggio, tra scali e cambi di aereo, richiede una settimana: le Isole Fiji, recentemente colpite da un ciclone. Adrián ha fatto ancora in tempo ad andare in Perù quando la città costiera di Piura si è allagata nel 2017, per 75 gior-ni, e in Ecuador nel gennaio 2019. Sono stati di nuovo insieme nella crociata contro il coronavirus in Italia, nel Vecchio Mondo.All’ospedale da campo di Torino si occupavano di garantire la biosicurezza dei nostri collaboratori e di tutti coloro che entra-vano e uscivano dalla zona rossa. Lavoravano dalle 8 del mattino, no alle 8 del mattino del giorno successivo, a turno. America Lati-na, Africa, Oceania, Europa: questi scienziati dalle modeste origi-ni sono sempre andati ovunque fossero utili o necessari, dovun-que li richiedessero popoli e governi, di una ideologia o dell’altra, nelle zone più sperdute dell’amata Cuba o in altre più lontane. A proposito di questa pandemia, René mi ha detto: «Noi epidemio-logi insieme ai sistemi di salute pubblici nazionali di tutto il mon-do, dobbiamo fermarci e dire: c’è stato un prima del coronavirus e ci sarà un dopo il coronavirus. Le epidemie sono caratteristiche dei Paesi sottosviluppati, sono strettamente associate a stili di vita

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92CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE malsani o inadeguati, e anche alle infrastrutture di base, ma que-sta epidemia invece ha detto: no, vado nei Paesi sviluppati. Prima in Cina, poi si è trasferito in Europa e poi negli Stati Uniti; le eco-nomie più potenti sono state colpite dalla pandemia. Il mondo non era pronto a questo. I sistemi sanitari dei Paesi capitalisti svi-luppati sono organizzati per prendersi cura del paziente, non per cercare la malattia nella comunità, e questo ha una grande peso».Due famiglie li aspettavano a Cuba: Leydi Cruz Paneque a Bág-uanos e Niurys Laidis Ortiz Pavón a Manatí, sentono l’orgoglio di condividere la loro vita con questi due burloni, che prendono la vita e la morte molto sul serio.Insieme al dottor Osoria Mengana, all’ospedale di Holguín, lavora il dottor Maurio González Hernández, specialista in Medi-cina di Famiglia ed Endocrinologia. La sua storia d’amore ha tinte cinematograche, potrebbe perno essere una scena di un lm italiano. «Un giorno ero in una casa di riposo e lei è passata in bicicletta, l’ho vista ed è stato amore a prima vista». Ma que-sta scena si è svolta a Santa Clara. Il primo incontro tra il dottore originario di Santiago de Cuba Maurio e l’ingegnera industria-le Yirenia Quintero López è avvenuto così. «Me lo dissero tutti, no dottore, qui no! Perché no? Scesi per incontrarla, mi piazzai davanti alla sua bicicletta e mi presentai» ha raccontato l’anco-ra giovane innamorato. «Dopo tanti giorni abbiamo iniziato una relazione, siamo sposati da otto anni e abbiamo una bellissima bambina di tre. È una relazione solida». Il 7 luglio 2020 Maurio ha compiuto 32 anni. Lei ne ha 27, li compie a novembre, come la bambina. Nonostante la sua giovane età, il mio intervistato è uno degli specialisti più ricercati dai pazienti dell’Ospedale -O-GR dell’ASL Città di Torino, dove è arrivato come membro del-la Brigada Henry Reeve alla sua prima missione di cooperazione internazionale all’estero.Durante la sua adolescenza non pensava che la sua strada sareb-be stata la medicina. Era un bravo studente, partecipava a concorsi di matematica, sica e chimica. Gli piacevano le scienze.«Alle superiori i miei genitori insistevano che studiassi medici-na, ma io allora non mi vedevo come medico. All’ultimo anno ero

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93CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE propenso a qualcosa che avesse a che fare con la tecnica, qualcosa in cui potessi applicare la scienza. I miei genitori hanno sempre rispettato la mia opinione, ma sicuramente hanno inuenzato la mia decisione nale. Ed è curioso che anche molti dei miei inse-gnanti delle superiori mi vedevano come dottore, anche quelli di matematica e sica, e allora mi sono detto: “Non può essere che si sbaglino tutti”. Penso che quello che videro in me era che mi pia-ce aiutare le persone. E credo che la prima virtù di un medico sia questa: se non sei altruista, solidale, non fare il medico. “Smetterai di avere la tua vita per vivere la vita degli altri”, dice uno dei pre-cetti di Esculapio. Alla ne scelsi medicina. Passammo i primi 45 giorni di corso in un policlinico dove ci fecero una specie di pre-sentazione di ciò che sarebbe stata la professione, e fu importante per me, mi innamorai profondamente della medicina».Adesso lo sapete: Maurio si innamora così, all’improvviso e per sempre. I suoi due amori lo possono confermare: Yirenia e la medicina.Il dormitorio del Gruppo AbeleUn giorno il dottor Sergio Livigni, direttore dell’Ospedale -OGR dell’ASL Città di Torino, e il nostro capo Brigada, dot-tor Julio Guerra, insieme con altri specialisti hanno visitato un dor-mitorio di Torino che assiste i più bisognosi: i senzatetto, che nel gergo eufemistico degli specialisti sono spesso chiamati “persone senza ssa dimora”. Una sezione dell’edicio è dedicata ai tossico-dipendenti e un altro alle donne vittime del trafco di esseri uma-ni. Lo spazio è limitato, però le diverse categorie non si mescola-no. Quelle che “vivono” per strada (in questo centro si ricevono donne) accedono solo di notte – vitto e alloggio – e mai in modo permanente. È un salvagente sull’asfalto della città. La pandemia e la necessaria clausura nelle case hanno costretto l’organizzazio-ne, in cui lavorano con abnegazione assistenti sociali volontari, a ridurre ulteriormente la capacità di accoglienza, e a ospitare nell’e-dicio le prime arrivate. Per un mese tra queste mura sono state

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96CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE accolte 14 di loro: italiane, rumene, nigeriane. Non c’erano altri letti. Ma l’isolamento non poteva essere ulteriormente prolunga-to. I dirigenti richiedevano alle autorità sanitarie una formazione epidemiologica minima per quelle che sarebbero tornate in stra-da e per il personale del centro di accoglienza. Come deve com-portarsi una persona “senza ssa dimora” per non ammalarsi di coronavirus, quali misure preventive devono essere prese nell’or-ganizzazione della vita interna del centro. La richiesta era diretta agli epidemiologi cubani.Come concordato, il 14 maggio 2020 sono iniziati gli inter-venti formativi sul -. Sette donne, sei nigeriane e un’an-ziana marocchina, ascoltano la spiegazione dettagliata del dot-tor René Aveleira: come e quando lavarsi le mani, come togliere la mascherina, quale distanza mantenere tra le persone, quali sono le quantità di cloro necessario in ciascun caso per mani, superci e scarpe e altro ancora. In pochi giorni sarebbero state di nuovo in strada, l’unica, vera casa che hanno. Michele Curto, la nostra guida e principale promotore di queste azioni collate-rali, traduceva in italiano, passando però all’inglese, visto che evidentemente non tutte riuscivano a capire. Oltre alla signora marocchina, a tradurre c’era un’italiana i cui genitori sono ara-bi. C’erano tre donne sfruttate sessualmente, vittime del traf-co di esseri umani.All’inizio si respirava tensione, forse anche sducia, ma man mano che il discorso andava avanti, comprese le dimostrazioni pratiche di Michele, che si muoveva come un assistente di volo che mostra le misure di sicurezza, e delle alunne, sempre applaudite dalle compagne, l’atmosfera si è rilassata. Una scriveva con atten-zione, come una studentessa. In realtà, a dispetto dell’età, sembra-vano bambine. Si divertivano, domandavano. Non so se abbiano rispettato le regole che ha spiegato René, non so se poi abbiano avuto mascherine, o mantenuto le distanze – dai loro sfruttatori? – se si siano potute lavare le mani tutte le volte che è stato neces-sario. Non so quanto siano sopravvissute. Ma quel giorno hanno sentito che qualcuno si preoccupava per loro.Alla ne, quella che sembrava meno disponibile ha chiesto di

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97CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE parlare e ha ringraziato René per la sua presenza. Ha detto che avrebbe scritto alla sua famiglia in Nigeria perché seguisse i suoi consigli. René ha risposto che Cuba ha ricevuto molto in passa-to dall’Africa e che noi cubani siamo grati per questa eredità. Mi avevano avvertito che non si sarebbero fatte fotografare, ma inve-ce erano lì tutte riunite insieme agli assistenti sociali e all’inse-gnante cubano, e guardavano la macchina fotograca che avevo tra le mani.La mattina del 16 maggio 2020 siamo tornati al dormitorio, temporaneamente trasformato in comunità, delle donne sen-za ssa dimora. Quella volta c’erano altre sette donne: italia-ne, rumene, una tedesca (sarà stata dell’ex DDR? La domanda è d’obbligo, a questo punto) e una dominicana. Non erano giova-ni. Ho cercato di capire i loro volti, seri o sorridenti, i loro mon-di nascosti. Con chi stavano chattando sui loro cellulari durante l’incontro? Non ho voluto intromettermi. Due di loro soffrono di malattie mentali. Il dottor Aveleira e il “traduttore” Michele spiegavano le misure di protezione essenziali per la sopravviven-za in tempi di pandemia. Queste donne parlavano bene l’italiano e avevano più preoccupazioni. Alcune sono state chiarite dal dot-tor Julio, che accompagnava l’epidemiologo. All’uscita ci siamo fermati nel giardino dell’istituto. In una città in cui abbondano i palazzi circondati da giardini, questo non ha niente di partico-lare. Ma le rose sono grandi, direi enormi, e ce ne sono di rosse, viola, bianche, rosa e gialle. All’improvviso, noi cubani eravamo tutti lì a fotografarle. In quella primavera incerta, i ori erano il simbolo più evidente della vita. In televisione, nella mia stanza, ho visto un breve servizio sul centro che abbiamo visitato, regi-strato durante la nostra visita, in cui veniva mostrata e citata la collaborazione cubana. Ho riconosciuto una delle nostre alunne che ha dichiarato alla giornalista che sta cercando di realizzare il suo desiderio più grande, con voce rotta e il volto nascosto: «Ave-re una vita normale».

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99CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE Il silenzio degli abbracciRivedo le foto che ho scattato negli ultimi giorni. Non sono un fotografo, sono uno scrittore, e non mi vanto della qualità di quel-le immagini, ma mi aiutano a ricostruire i fatti e, di volta in volta, a illustrarli. Una foto, scattata al volo, mi attrae. Alcuni membri della Brigada, in un cambio di turno erano assorti davanti al piccolo scher-mo del cellulare. Parlavano sì, ma non tra di loro: dall’altra parte dell’oceano, o del ciberspazio, appariva un volto che dava senso a quell’attesa, al rischio di chi stava lottando per la vita. Solo pochi eletti potevano percepire l’intensità della scena. A volte, all’alba, quando a Cuba la notte era appena cominciata, si sentivano delle voci nel corridoio. Le persone care, in punta di piedi, entravano nelle stanze per iniziare lunghe conversazioni.Alcuni mi hanno mostrato le foto di una vita precedente che è rimasta congelata: il dottor Manuel Emilio López Cifontes, origi-nario di Camagüey, sorride alla moglie e al glio, in chissà quale ristorante, le birre bevute a metà; l’epidemiologo Adrián Benítez passeggia a Holguín con sua moglie, mentre il bambino, in brac-cio al papà, indica da qualche parte, oltre la macchina fotogra-ca e il tempo; Jaime Zayas Monteagut di Santiago sorride con sua moglie in una foto ritagliata su uno sfondo verde di ori... La pan-demia ha fermato il tempo.Medici e infermieri riparavano i sogni di altre persone, ma in questo modo ricostruivano i nostri sogni, quelli di tutti, che sono anche i loro. Sono andati a scongelare vite, e le loro, apparente-mente immobili, si riempivano di una strana, indecifrabile gloria. Quando sembrava che la vita ci imponesse di raccoglierci nell’inti-mità e che premiasse sentimenti e aspirazioni che non travalicasse-ro le mura della propria casa, sono apparsi questi Don Chisciotte, saggi e pazzi allo stesso tempo, a combattere per la vita degli altri a rischio della propria. Ed è per questo che tutta Cuba applaude. Un sentimento di orgoglio si insinua in ogni casa, temporaneamen-te abbandonata, e allevia il dolore della lontananza. Tra gli scherzi e la solennità, noi cubani cerchiamo sempre l’equilibrio. Se qual-

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100CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE cuno ci chiama eroi, lo guardiamo con sospetto; ma gli occhi dei nostri medici (e delle loro mogli, madri e bambini) brillano quan-do i vicini applaudono. In una società come la nostra, non ci sarà mai un premio più grande di quell’applauso.Devo dedicare alcune parole a una donna eccezionale. È una delle volontarie che ci hanno assistito a Torino. Nessuno è rima-sto immune al suo fascino: semplice e colta, intelligente e sensi-bile, ha conquistato l’amicizia di tutti. Traduceva tutto ciò che le veniva chiesto, aiutava gli epidemiologi nel loro compito, accom-pagnava i cubani in giro per la città e ha compiuto i più inaspet-tati atti di solidarietà. Il suo nome è Ilham, proprio così, la ragaz-za italo-marocchina.Gli ulmi giorniCon l’avvicinarsi dell’ultimo giorno, della chiusura dell’Ospe-dale -OGR dell’ASL Città di Torino e del nostro rientro a casa, abbiamo fatto un lungo, bellissimo ed estenuante tour, meti-colosamente coordinato, ovviamente, da Michele Curto. La matti-na presto siamo andati a Collegno per visitare piazza Che Gueva-ra; successivamente, siamo andati al Monte Arpone che si trova nei pressi del Colle del Lys, dove nel 1944 ci fu uno degli scontri più sanguinosi tra i partigiani della Brigata Garibaldi e le truppe fasci-ste. In quella occasione abbiamo scoperto che in uno dei suoi tan-ti viaggi a Cuba, Michele ha riportato una tavola di caguairán su cui ha inciso il nome di Fidel Castro. Questo legno è così forte che alla dogana pensarono che stesse trasportando un qualche tipo di metallo. Nel primo anniversario dalla scomparsa del Comandan-te, alcuni amici hanno scalato una delle vette del monte per trova-re una roccia abbastanza pulita e liscia. Subito dopo, è arrivato un gruppo di giovani dell’AICEC, dell’Associazione Nazionale di Ami-cizia Italia-Cuba del territorio e la Brigata Gino Doné, che prende il nome dell’ex partigiano e poi unico membro italiano della spe-dizione sullo yacht Granma con il quale Fidel Castro e Che Gueva-ra tornarono a Cuba dal Messico per ricominciare la lotta contro

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101CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE Batista nel 1956. Tutti insieme posero la tavola. Dopodiché chie-sero e ottennero dai comuni limitro il riconoscimento del nuovo toponimo. Da allora, il picco porta il nome di Fidel.Il Pico Fidel si trova a 1.600 metri sul livello del mare, un’alti-tudine simile a quella del Comando di Fidel nella Sierra Maestra. Non siamo partiti, ovviamente, dal livello del mare, perché le pen-dici del monte sono già a centinaia di metri sopra, ma la salita è stata un esercizio che ci ha messi alla prova. In qualche modo, sia-mo arrivati tutti, anche se bisogna confessare che i volontari italia-ni erano in condizioni siche molto migliori della maggior parte di noi. Durante il percorso una troupe televisiva italiana ci ha l-mato, anche con i droni che ci sorvolavano. Niente è paragonabi-le all’estasi di arrivare in cima, di superare un formidabile ostacolo come quello e di guardare l’orizzonte di aria pura che si percepi-sce da lassù.Poi, senza sosta, abbiamo proseguito verso la Sacra di San Miche-le, in cima a una montagna. L’enorme costruzione medievale che risale all’anno Mille, fu realizzata sopra e tra le rupi rocciose del monte, tanto da ritrovarle all’interno dell’edicio, che emergono a frammenti tra le mura e i solai. Nell’ultimo salone, nella parte alta del monastero dove si trova la chiesa, si vede un piccolo promon-torio che sporge dal pavimento: è la sommità del monte, la punta che gli architetti medievali riuscirono a superare.«Un giorno ricevetti un telegramma da Carlos Enríquez indiriz-zato all’abate Marcelo Pogolotti» scrive nelle sue memorie quest’ul-timo, che non era abate, ovviamente, parlando di uno dei pittori più importanti dell’avanguardia cubana e latinoamericana, «fatto che suscitò straordinariamente la curiosità della portinaia, nel qua-le mi annunciava il suo imminente arrivo. (...) Il nostro incontro fu incredibile e trascorremmo giorni, per me indimenticabili, pas-seggiando per diversi luoghi di interesse, mangiando piatti tipici e assaporando l’intera gamma dei vini piemontesi. Una mattina par-timmo presto in treno per visitare la monumentale Sacra di San Michele, un antico convento romanico vicino a Giaveno, su una vetta che domina la Val di Susa, tradizionale porta di accesso all’I-talia dai tempi più remoti, dove albergavano i pellegrini diretti a

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104CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE Roma da tutta la Francia. L’edicio, con il suo profumo medieva-le, oltre al suo interesse archeologico offre un superbo panorama che abbraccia l’intera grande valle. Dovemmo fare un po’ di alpi-nismo, ma ne valse la pena».Abbiamo proseguito no al cimitero di Giaveno, come ho già detto, per visitare il luogo dove riposano le spoglie della famiglia Pogolotti, e lì alla ne ci è stato offerto un pranzo dall’Associazio-ne di Amicizia Cuba-Italia. Quel giorno siamo tornati alla residen-za molto tardi, più morti che vivi per la stanchezza, ma emozionati, felici. Il giorno dopo si è svolto un altro evento indimenticabile: il più grande pranzo all’aperto dopo il lockdown in Italia. Quattro-cento commensali riuniti al Parco Dora di Torino, con la magnica performance del pianista Giovanni Casella, ex paziente del nostro Ospedale, e della cantante lirica Ileana Jiménez. Al Parco Dora e poi da lì al residence, siamo andati avanti e indietro con le bici-clette a noleggio del Comune, in un ultimo giro d’addio. Al Par-co Dora c’è un murale a futura memoria dipinto da adolescenti e giovani di diverse organizzazioni studentesche torinesi, con al cen-tro la gura di Fidel, alcuni medici con le loro mascherine e due frasi: “   ”, di Fidel Castro, e “  -” di José Martí.Noi 38 membri della Brigada abbiamo ricevuto la Medaglia d’Onore al Merito Civile della Regione Piemonte, assegnata anche ai lavoratori italiani dell’Ospedale -OGR dell’ASL Città di Torino, e il Dott. Julio Guerra Izquierdo, a nome di tutti, ha rice-vuto la Cittadinanza Onoraria della Città di Torino.Durante l’ultimo mese di lavoro all’ospedale siamo stati let-teralmente assediati dalle telecamere: da straordinari fotogra come Diana e Andrea, e da documentaristi italiani e cubani. Ad ogni modo, in quegli ultimi giorni le telecamere si mescolavano, si sovrapponevano, (compresa la mia), e non riuscivamo a parlare senza scoprire di colpo di essere stati ripresi o addirittura insegui-ti da un obiettivo. Ma il risultato, in parte, è questo bel libro. Le foto bastano da sole, l’occhio esperto di questi professionisti non descrive, suggerisce. E quando si supera la cronaca e appare l’arte, ogni dettaglio coinvolge lo spettatore, che deve contribuire con la

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105CUBANOS EN TURIN: UNA STORIA D’AMORE propria interpretazione. Queste parole non cercano di anticipar-vi nulla, ma vogliono trasmettere al lettore italiano le esperienze e i sentimenti di quel gruppo di cubani, eredi anche della cultura latina, che ha avuto il privilegio di contribuire, modestamente, a salvare vite in un Paese, in una regione, in una città che per secoli è stata la culla dell’Umanesimo.

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107RitraF P

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110La mala oraÈ    ,      calendario lugubre. Da poco più di un mese l’Italia è in lockdown duro, il primo Paese occidentale a rinculare stordito sotto l’offensiva del - no a serrare tutto, le città, le scuole, il bar del caffè. Nessuno ha capito bene in quale incubo sia nito il pianeta Terra ma, moltiplicatisi a partire dall’ospeda-le di Codogno, i nostri morti sono già 20.465, 1876 in Piemonte, 763 solo a Torino. Nessuno immagina che un anno dopo la guer-ra non sarà ancora nita.Alle 10 di un mattino di sole beffardo, un Boeing bianco decol-lato dieci ore prima dall’aeroporto internazionale José Martì atter-ra, solitario, a Caselle. La pista è deserta, come deserti sono i cie-li di un mondo in cui da un giorno all’altro non vola più un solo passeggero e in cui sono scomparse le insegne delle compagnie aeree, destinate a chiudere il 2020 con una perdita di almeno 252 miliardi. Sulla scaletta, bardati come Neil Armstrong di ritor-no dalla luna, compaiono i cubani, uno dopo l’altro, 38 in tutto, 20 medici, 16 infermieri, un logista e un narratore, la forza antica della parola di Sheherazade perché n quando si racconta vince la vita. Da tre settimane, precettati dalle autorità nei diversi ospe-dali dell’isola caraibica per rispondere all’SOS lanciato da un Pie-monte agonizzante, aspettavano, in una Avana meno spettrale di Torino ma comunque chiusa, il via libera della torre di controllo.Il piccolo emozionato gruppo di trenta persone che li attende con la mascherina ormai consueta ha seguito passo passo la lunga trattativa: la richiesta di un’équipe cubana specializzata, come quel-la già inviata a Crema, per gestire gli hangar delle Ofcine Gran-di Riparazioni, meglio note come OGR, riconvertiti in ospedale ; l’organizzazione dell’accoglienza messa in piedi dall’AICEC; la ricerca di un aereo autorizzato alla traversata solitaria. Allineati in modo ordinato, come impone il distanziamento più che la gerar-chia, ci sono il governatore Alberto Cirio e la sua portavoce Josè

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111LA MALA ORAUrso, entrambi segnati nello sguardo dal virus appena scontto, c’è la sindaca Chiara Appendino, ci sono venti volontari che, sen-za poter contare su un solo negozio aperto, hanno trascorso le ulti-me ore a rovesciarsi le tasche per trovare un regalo di benvenuto.C’è stato un momento in cui sembrava che non se ne faces-se più nulla, che fosse tutto un girare a vuoto in balìa dell’epide-mia, comprese le generose acrobazie dell’aeronautica italiana, pronta a inviare un proprio mezzo se solo fosse stato possibile per un mezzo della Nato planare a Cuba. Poi però c’è Torino, la città che esageruma nen, ma fa cose. È così che la Fondazione Lavazza, già impegnata a sostenere nanziariamente l’emergenza, ha fatto squadra con la Fondazione Specchio dei Tempi e insieme, ostina-tamente, hanno trovato il modo, le risorse, il volo. Adesso i cubani sono qui, scendono lentamente la scaletta, un passo dopo l’altro n giù all’inferno, si guardano intorno seguendo in la indiana l’ambasciatore José Carlos Rodríguez Ruiz che ha coordinato l’in-tera missione al telefono.«Siamo contenti di esserci e resteremo n quando sarà necessa-rio» scandisce in spagnolo il capo Brigada, Julio Guerra Izquierdo: sguardo basso, aria grave, mani giunte sul petto in una preghiera laica che si raccomanda alle divine risorse dell’uomo. Resteranno. Whatever it takes, costi quel che costi, come recita il citatissimo man-tra di quel Mario Draghi che un anno dopo siederà da premier a Palazzo Chigi. Resteranno i cubani, costi quel che costi. Il governa-tore e la sindaca, alla testa di una comunità spaventata e confusa, accolgono i medici dietro lo striscione di benvenuto, lenzuola di un corredo nuziale sacricate da mamma Olimpia per l’occasione e illustrate con la bomboletta spray recuperata dal magazzino di un centro estivo giovanile, la memoria a brandelli di una normali-tà che è appena ieri e pare il secolo scorso. “Bienvenidos a Torino”.L’incontro è scarno, gli abbracci rinviati sine die. Pochi minu-ti per il tampone, ventiquattr’ore di quarantena, quattro giorni tra formazione e montaggio di letti, comodini, respiratori. Poi, la trincea. Domenica 19 aprile, a un mese esatto dalle immagini dei camion militari carichi di morti lungo le strade spettrali di Berga-mo, le OGR di Torino accolgono il primo paziente, la sirena del-

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114LA MALA ORAle ambulanze satura l’aria primaverile, l’Italia, che per giorni ha ripetuto scaramanticamente “andrà tutto bene”, ha smesso di can-tare dal balcone.

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115The waste landN   ’  ,    emotiva di un’angoscia simile a quella che avvolge il lock-down. È stato poco tempo fa, la paura della strada, le sara-cinesche serrate, l’eco frettolosa dei passi sotto i portici.Quando all’inizio degli anni Duemila Torino orisce sotto gli occhi ammirati di chi la vede per la prima volta, i torinesi raccon-tano di continuo quanto opprimente fosse no a ieri. L’onda lun-ga degli anni di piombo ha lasciato senza ossigeno la città dell’al-lora sindaco Diego Novelli, dove «c’era la concentrazione della più grande forza economica e la più grande forza organizzata del movi-mento dei lavoratori». A cavallo del secondo millennio la rinasci-ta musicale dei Murazzi, il successo della Fiera del Libro al Lingot-to ristrutturato da Renzo Piano, la stagione aurea dei Subsonica e degli Africa Unite proiettano verso il futuro l’ex capitale. Volando avanti ad ali spiegate però, Torino, come l’angelo della storia di Benjamin, volge lo sguardo indietro. Indietro ci sono la lotta arma-ta, il processo alle Brigate Rosse, la marcia dei 40mila, il riusso e la droga degli anni ’80, c’è grigio, nebbia, depressione, silenzio rotto solo dall’urlo catartico del derby calcistico. La reazione del-la società civile vince alla ne sul terrore ma lo spettro resta lì, una specie di male oscuro, un rumore malinconico di fondo coperto appena dal tripudio collettivo per le Olimpiadi invernali del 2006. Può capitare ancora.Il - colpisce in realtà una comunità che, secondo mol-ti, si è disamorata da tempo dalla rinascita. La spinta propulsiva rallenta anno dopo anno, Miraori non è diventata la Silicon Val-ley, il Salone dell’Auto ha traslocato a Milano. Eppure il lockdown è un fulmine a ciel sereno, lascia di sasso. Fa male fuori e dentro.Quando la Brigada cubana atterra a Caselle con la missione di salvare vite dentro le Ofcine Grandi Riparazioni la malattia, come del resto in tutta Italia, non è già più solo un problema dei conta-giati. Il 21 marzo il governatore Cirio ha emanato la più dura delle

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117THE WASTE LANDordinanze, allerta massima, chiuso tutto il possibile, bisogna restare a casa. Chi esce cammina svelto, mani in tasca, sguardo circospetto dietro la mascherina. I tuoi occhi/ saranno una vana parola,/un grido taciuto, un silenzio. Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.Si resiste, certo. Le canzoni dal balcone ogni giorno alle 18, il tricolore alla nestra, gli aironi guardabuoi avvistati nel vicino par-co del Meisino come nelle pianure africane. In tv imperversano virologi, epidemiologi, infettivologi. Finito con l’oracolo sanitario si cercano numi tutelari della salute mentale. I Préludes di Chopin interpretati da Ivo Pogorelich, consiglia la pianista Gloria Campa-ner, oppure Changing Places del Tord Gustavsen Trio, A Moon Shaped Pool dei Radiohead. La Libreria del Golem, una piccola bottega indipendente specializzata in psicologia, consegna libri a domicilio.Il conto, alla ne sarà salatissimo. Si stima che Torino sia una delle città italiane ad aver risentito maggiormente delle conseguen-ze della pandemia, solo l’attività commerciale denuncia per il 2020 un crollo del 20,2%. Poi si ricomincia, sempre. Mentre, smantel-late le OGR, i medici cubani ripartono per l’Avana, l’estate pren-de ato: riapre, pioniere, il cinema a luci rosse Arco e subito dopo tocca allo storico Massimo di via Verdi, termometro, gel igieniz-zante, 200 posti distanziati e sul grande schermo Buio di Emanuela Rossi. La Torino che si vede decollando con l’aereo è altro rispet-to a due mesi prima, o almeno scommette di esserlo. Resta però il solito retrogusto amaro, un déjà-vu che ritorna, Torino lo sa. Può capitare ancora.

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118Victor il gladiatore«Buongiorno victor, dove ti trovi in questo momento?»«Sono a Cuba, sono tornato all’Ospedale Pediatrico Pepe Por-tilla di Ciudad Pinar del Rio, combattiamo anche qui con-tro il covid e cerco di trasferire ai colleghi quello che ho imparato a Torino, dove per l’intera durata del servizio alle OGR non si è contagiato nessuno».«Che cosa hai imparato?»«Il lavoro in équipe, ho imparato a utilizzare macchinari sosticati che non avevo mai visto prima ma la lezione più formativa è stata il lavoro in equipe. Prima di quella in Italia avevo partecipato ad altre tre missio-ni internazionali, tra cui una nella Sierra Leone morsa dall’Ebola. Sta-volta però la squadra ha fatto veramente la differenza, il covid-19 è una malattia da cui nessuno può chiamarsi fuori, riguarda la società intera. Per questo credo che il vaccino, a oggi la sola soluzione, vada distribuito a tutti, credo che non ci possano essere differenze tra chi ha maggiori dispo-nibilità economiche e i meno abbienti, ci si salva insieme con passo fermo o non ci si salva».Victor è il più giovane infermiere della Brigada Henry Reeve. Da bambino s’immaginava a rappresentare il suo Paese nel mon-do con la torcia olimpica in una mano e la medaglia di una qual-che specialità sportiva nell’altra. Poi ha studiato medicina e, dice, oltre a quello di Cuba tiene alto l’onore della famiglia, la madre maestra d’asilo e il padre fornaio. Se pensa a un modello ideale, l’esempio da indicare ai suoi tre gli, pensa a lei, la mamma, «il motore che mi pulsa dentro mentre ogni giorno lavoro a testa bas-sa per migliorare».Nel cellulare tiene le foto di Torino, Victor. Le riguarda ogni tanto la sera prima di prendere in mano Le mille e una notte, il libro che sta leggendo. Lui in camice bianco davanti all’ambulanza del-la Regione Piemonte, lui alla stazione Porta Nuova, lui accanto a una signora con i capelli d’argento che si aggrappa al suo braccio come a un’àncora in mezzo al mare. Il nome non lo ricorda ma

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119VICTOR IL GLADIATOREla porta con sé: «Avrà avuto 83 anni, forse 84. Era sempre allegra, nonostante avesse un quadro clinico complicato. Quando entravo nella zona rossa la vedevo sollevare il capo sul cuscino, cercava di leggere il nome scritto sulla tuta e mi chiamava. Ogni volta la stes-sa scena, mi faceva sentire un famigliare». A un paziente è lega-to anche il suo ricordo più cupo: «Ripenso a un uomo che aveva perso il padre a causa del , mi teneva la mano, mi chiede-va di aiutarlo, voleva solo farla nita per raggiungere suo padre». Ci sono foto per ogni momento e ce n’è una per l’ultimo giorno, i malati dimessi uno dopo l’altro, la raccolta dei nastrini bianchi legati all’albero della vita, il cielo, la sensazione di un’impresa gran-de come quelle dei gladiatori di cui studiava sui manuali di scuo-la, «ho sempre sognato di visitare Roma, stavolta non mi è riusci-to ma intanto la sorte ha bussato e mi ha portato in Italia, le OGR, un Colosseo, a loro modo, dove ho salvato delle vite».La paura se la porta dentro. Non la paura del presente, il mon-do, più o meno rapidamente, sta reagendo, «mi spaventa il futu-ro, temo che arrivino altre pandemie e noi non siamo preparati».«Sei pronto a fare le valigie per la prossima missione, Victor?»«Appena servirà, ci sono».«Cosa ti chiedono di Cuba quando sei all’estero?»«Ogni volta che parto per una missione internazionalista le persone che incontro mi domandano com’è Cuba, se è bella, come si vive, se la salute è veramente gratuita come si dice. Io con molto orgoglio rispondo che sì, che è cosi, la salute è gratuita e l’istruzione è gratuita».«Ti domandano anche se ti senti libero?»«Sì, io mi sento libero a Cuba. Sono anche libero di scegliere di lasciar-la per andare a collaborare con professionisti di altri Paesi per occuparmi della salute. Nessuno mi obbliga a partire, vado prima di tutto perché mi piace la mia professione, mi piace aiutare le persone, fare nuove esperienze e arricchire il mio bagaglio umano e professionale. In generale dico quello che penso e sinceramente sono felice di essere cubano».

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122L’albero della vitaP,  ,      del paziente numero uno, italiani e cubani cominciano a parlare. Non che non l’avessero fatto nora, anzi: la lingua tra simili che gesticolano tanto quanto respirano è un dettaglio. Ma la tensione è grave, l’epidemia incalza, il protocollo dell’ospedale impone disciplina militare. Con i morti non si bara e i morti a que-sto punto sono oltre 26 mila in Italia, 120 mila in Europa, 200 mila nel mondo. Cuba, con l’età media della popolazione più alta del continente latino-americano, ne ha poche decine e alle OGR, dove la retorica politica conta zero rispetto alla ricerca del bandolo della matassa, c’è urgenza di confronto, cosa stiamo sbagliando, quan-to tempo ci vorrà, come hanno reagito quelli che tengono botta.L’unico luogo dove personale medico e volontari abbassano la mascherina e si misurano faccia a faccia è davanti al distribu-tore del caffè, la zona franca per un espresso, una boccata d’aria a distanza, il sorriso che alle sei del mattino restituisce espressivi-tà agli sguardi lunari compressi tra gli strati di plastica protettiva. Julio racconta dei colleghi impegnati in altre missioni, della sua esperienza in Venezuela, in Guatemala, a Gibuti, selva amazzonica e lande desertiche, zone dure, remote. Laggiù, tra foreste grandi e sconnate asperità, l’albero è simbolo di vita e per ogni paziente guarito c’è un medico che annoda intorno a un ramo un pezzetto del suo camice, una strisciolina di tessuto in rappresentanza di ogni morte scongiurata. Julio è un affabulatore e l’immagine del nastri-no bianco che, tra statistica e valenza apotropaica, annuncia la gra-duale vittoria sulla pandemia diventa automaticamente l’essenza di questo hangar carico di dolore ma ancora privo d’identità. Il mez-zo è sempre il messaggio e qui serve un albero della vita. Il resto lo fa Torino, capitale senza arroganza del lavoro dietro le quinte.Gli ufci sono chiusi ma il capoluogo piemontese non lavorava così a testa bassa forse neppure quando i cancelli della Fiat erano il rito di passaggio per il futuro. L’assessore all’ambiente Alberto Unia

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123L’ALBERO DELLA VITAtrova nel vivaio municipale la disponibilità di una coppia di carpi-ni da due metri ciascuno e, nel giro di pochi giorni, li fa recapita-re ai cancelli asettici delle OGR, gli stessi davanti ai quali staziona-no gruppetti di parenti persi a cui gli altrettanto persi uomini della sicurezza, abituati a smistare senza troppi complimenti il pubbli-co dei concerti, devono riutare, con malcelato imbarazzo, i doni preclusi ai malati in isolamento. Dentro ci sono ancora 90 persone ma ne sono uscite una ventina, l’ospedale funziona ormai da piat-taforma di svuotamento per gli altri reparti .Il mattino dell’inaugurazione, venerdì primo maggio, festa sot-totono del lavoro ibernato, l’albero della vita orisce con le storie di chi ce l’ha fatta e, senza malinconia ma con molta gratitudine, si lascia dietro una lettera di ringraziamento nell’idioma del cuore e un nastrino bianco. Una lettera e un nastro per ciascun pazien-te dimesso. Niente camici riciclati stavolta: Torino rinasce, guarda avanti, i portici tornano al consueto andirivieni, gente che evita di strusciarsi eppure si muove. I negozi riaprono e comprare una bobina di raso bianco in merceria non è ingenuo wishful thinking ma è esattamente quella luce in fondo al tunnel che s’intravede con i bambini tornati a giocare sotto i platani lungo il Po. I carpi-ni hanno svolto il loro compito, il trattore che li aveva trasportati alle OGR attraverso le cancellate blindate li riporta al vivaio muni-cipale in attesa, chissà, di separarli un giorno una volta per tutte, uno a Torino e l’altro a L’Avana, yin e yang, la sorte dei occhet-ti cuciti insieme dalla solita mamma Olimpia in un’unica grande fascia divisa poi tra la Regione Piemonte e Cuba.

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126Come in uno specchioI     . D ,    vita passa dal suono della voce che da etereo si fa carne. Parlo dunque sono. I medici sdano il - in prima linea, nella zona rossa, e Monica Agnesone, psicologa della ASL Città di Torino arruolata nell’équipe multidisciplinare, combatte la guerra di retro-via. Il fronte è sico, massiccio, un muro invalicabile che neppure la Guerra fredda. Da una parte la logistica, gli addetti alle pulizie, la mensa, le tende dentro cui indossare il camice e le ciabatte secondo le regole igieniche dettate dagli infettivologi cubani, lo spazio riu-nioni, la macchinetta del caffè e il divanetto dove scaricare letteral-mente la tensione. Dall’altra ci sono i pazienti, fagotti raggomitolati su letto con le coperte tirate n sopra alla testa per schermarsi dal-la luce che, peculiarità della struttura, non può essere spenta. Non c’è giorno e non c’è notte, né di qua né di là, niente nestre, niente orologi, niente stagioni. C’è invece a un certo punto un vetro, una parentesi di cristallo nella parete tra i vivi e i sospesi. C’è sempre sta-ta, insonorizzava gli spazi quando le OGR non erano silenzio assolu-to ma musica a rompere i timpani. La dottoressa Agnesone l’ha sco-perta per caso, cercando un varco per la mente degli uomini e delle donne ricoverati senza contatti con il mondo fuori se non sporadiche telefonate. Secondo uno studio dell’università di Oxford pubblica-to su The Lancet Psychiatry a ne 2020 il 20% dei malati di - presenta un disordine psichiatrico entro tre mesi dall’inizio dell’in-fezione, ansia, depressione, insonnia e una predisposizione superio-re alla norma a sviluppare in seguito demenza.Ogni pomeriggio Monica Agnesone siede qui e aspetta che dall’altra parte si materializzi una sagoma, un volto, un usso di coscienza. Lo “studio” è essenziale, c’è un tavolo, c’è la sedia dell’a-scolto e oltre il vetro c’è quella della parola. Ad ognuno di quel-li che si presentano all’appuntamento corrisponde una cartellina con il diario delle sedute, quante volte, con quale durata, quando si è manifestato il bisogno di comunicare, quanto tempo è stato

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128COME IN UNO SPECCHIOnecessario perché chi riluttava cominciasse a raccontare e a pian-gere. Non esiste alcun obbligo, chi può camminare e sente il biso-gno di un confronto che esuli da quello con i medici concorda un colloquio. Qualcuno sul principio ha chiesto una prova con il tablet, un passo alla volta, una condenza alla volta.«Il problema dell’isolamento dei pazienti è stato cruciale sin dall’inizio, sapevamo che dovevamo comunicare con loro, con quelli che riuscivano a farlo, ma era molto difcile» racconta la dottoressa Agnesone e un po’ si commuove. In molti casi il risve-glio signica riaprire gli occhi per scoprire che nel frattempo una persona cara non c’è più, che mogli, mariti e gli non ce l’hanno fatta o combattono ancora in terapia intensiva con poche speran-ze di tornare indietro, che il giorno è notte. In molti casi il risve-glio signica lutto, vivere per elaborare il lutto. I primi esperimenti sono stati le videochiamate: «Facevo come con i parenti, ci telefo-navamo e provavamo a parlare. Poi ho capito che con la parete di vetro potevo agganciare chi stava dentro al mondo esterno, basta-va creare le condizioni per una zona franca d’intimità».Alle spalle della sedia riservata ai pazienti c’è un paravento aperto a proteggere le spalle, una presa di distanza dalla malattia. Durante la seduta la dottoressa cerca gli occhi di chi ha di fronte e porge l’orecchio alla piccola fessura nell’intercapedine, non toglie mai la mascherina, si presenta così come riceverebbe in ambulato-rio, com’è Torino fuori dalle OGR. Quante volte, dice, ha raccolto silenzio, sguardi bassi, braccia abbandonate, tentativi andati a vuo-to di uscire dal loop della mente prigioniera. Alla ne, quasi sem-pre, la difdenza si scioglie, qualcuno piange, altri si rallegrano di dare un volto alla voce con cui hanno più volte parlato al telefono. Chiedono tutti un diversivo. Rivedrò mia moglie? Giocherò ancora con i nipotini? Chiedono chiarimenti, notizie, la famiglia, il presen-te. Tornerò a bere un bicerin in un caffè di piazza Castello? È dura. Ogni giorno, ogni pomeriggio, andata e ritorno nel labirinto del-la paura. Poi, quando le OGR chiuderanno, si vedrà, ci sarà modo di guardarsi indietro o forse magari no, la liberazione verrà con il bisogno di chiudersi la porta alle spalle, lasciando il tabù della soli-tudine all’oblio in cui i guariti avvolgono la malattia.

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129Non ci pensiamo mai alle maniL . N     ,    scontate. Mangiare, bere, fare, prendere, tastare gli spazi, i conni, le distanze. Uno cade e si puntella con le mani. Passa tutto da lì. Anche il - passa dalle mani. C’è stato un risveglio in cui, disorientati dal nemico invisibile, ci siamo ricor-dati delle mani e abbiamo fatto scorta di gel igienizzante, sempre più prezioso, sempre più caro. Chissà le dermatiti, quando la pan-demia sarà denitivamente alle spalle. Intanto teniamo tutti una buona riserva di disinfettante in casa, nell’automobile, dentro lo zainetto dei gli sempre pronto all’ingresso di casa sperando nel ritorno a scuola, con tanti saluti alla didattica su Zoom.Quando i medici cubani sono arrivati a Torino si sono guarda-ti intorno, i loro colleghi, formati nelle migliori università e dotati delle strutture più sosticate, morivano uno dopo l’altro nei pron-to soccorso impreparati allo tsunami. Si sono guardati intorno e si sono lavati le mani. Letteralmente. Palmo contro palmo, dorso contro palmo, abbraccia i pollici, pulisci la scanalatura, l’indice, il medio, la punta delle dita nella mano a coppetta. Prima anco-ra di costruire la collaborazione professionale che avrebbe tenuto in piedi l’ospedale temporaneo delle OGR – 150 persone tra sani-tari italiani e cubani, volontari, traduttori e personale di servizio, per tre mesi di apnea e zero contagiati – c’era da costruire la rete che evitasse il salto nel vuoto. Il lavaggio delle mani con una solu-zione di acqua e ipoclorido, come da anni si usa a Cuba all’inges-so di tutti i local pubblici, è diventato così, di fatto, la prima fase del lavoro, la più importante, prolassi concreta e al tempo stesso pensiero metaforico, come se un barchino di pescatori soccorres-se i naufraghi del Titanic e tirasse a bordo quelli che può. Cuba e noi. Senza retorica, senza miti veri o presunti. Non che sottovalu-tassimo la pulizia delle mani, i bambini lo apprendono con l’alfa-beto. Solo che poi crescendo si dimenticano tante cose.

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132NON CI PENSIAMO MAI ALLE MANILa lezione da trarre dalla pandemia è, probabilmente, volare basso. I medici cubani dunque, si lavano le mani. Lo fanno tut-ti insieme poi, cubani e italiani, sanitari e volontari, di giorno, di notte, la mani e le scarpe stronate su uno zerbino imbevuto del-la medesima soluzione ipocloridica, la reiterazione meccanica di un gesto semplicissimo che salva la vita. E le vite da salvare sono tante. Gli uomini e le donne ricoverati alle OGR e gli altri, quelli che, mentre il lockdown fa riscoprire nel bene e nel male le pare-ti domestiche, quattro mura in cui rinchiudersi non ce l’hanno.C’è un momento cruciale nel corso di formazione che la Brigada Henry Reeve svolge per le ospiti della casa di ospitalità notturna fem-minile del Gruppo Abele, una delle strutture torinesi riconvertite con la pandemia in centro di accoglienza H24, ed è quando René, Julio e Michele illustrano alle ragazze come vadano lavate le mani. Immaginiamo adesso la strada, la vita sulla strada. E poi il - spiegato a chi è inseparabile da quella vita e quella strada: le goccio-line killer, la malattia che si contrae respirando, la lontananza come terapia asociale. «Dovevamo preparare le nostre donne al rischio del contagio portando loro la voce della scienza, la sola che potes-sero ascoltare, ma dovevamo farlo senza umiliarle, senza supponen-za, bisognava che capissero davvero» racconta l’operatrice Claudia De Coppi, una di quelle toste che ha fortissimamente voluto il cor-so. E allora, per cominciare, prima ancora di spiegare il distanzia-mento necessario e la mascherina da cambiare ogni quattro ore, il lavaggio delle mani. Silenzio in aula. Le ragazze seguono attente, il corpo proteso a colmare il vuoto precauzionale che le separa degli insegnanti. Una, arrivata dalla Nigeria nella notte dei tempi, chiede di lmare il gesto con il cellulare, palmo contro palmo, dorso con-tro palmo, dita, coppetta: vorrebbe inviare il video a casa, fratelli, sorelle, il villaggio intero, dove probabilmente il - non mor-de così tanto ma tutti gli altri virus possibili e immaginabili sì. Quale sapone usare? Quante volte? Mille mani alzate, mille domande. Il gel igienizzante è un dover essere, buona pratica diventata già mer-ce, boccette colorate, sagomate, griffate. In realtà basta una tanica di candeggina da centellinare nell’acqua per ripulire le mani dal virus. Non ci pensiamo mai abbastanza alle mani.

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133Chiamami con il mio nomeP ,  . Q  Brigada    T le OGR sono più di un’idea. Lo spazio, le apparecchiatu-re, le risorse umane, in poche settimane l’ospedale è ope-rativo. Poi bisogna anche dire, illustrare una diagnosi, spiegare gli effetti collaterali di un farmaco, donare una parola di conforto. Julio e gli altri non risparmiano energie, vivono in corsia e dormo-no nello studentato distante appena 200 metri, casa e bottega. Il coordinamento con i colleghi torinesi, gli della caparbia tradizio-ne bogia nen, funziona. Non basta, però. Urge comunicare, inter-loquire con i colleghi e soprattutto con chi non può uscire dall’i-solamento del reparto in zona rossa, chi boccheggia attaccato al respiratore, chi necessita di una voce almeno quanto dell’ossige-no. Trenta volontari traduttori marcano a uomo i medici afnché si capiscano e diventano così, di fatto, sin dal primo giorno, par-te integrante dell’équipe. Ma serve un momento per fermarsi e apprendere, serve la scuola.«Ho insegnato la lingua italiana ai medici cubani per due mesi, ci vedevamo tre volte alla settimana nella grande sala riunioni rica-vata a ridosso della mensa e, per quanto adeguatamente distanzia-to, è stato un ritorno in classe vero, la prima lezione in presenza dopo innite settimane di video didattica con i miei studenti, ero emozionata come quando sali in cattedra per la prima volta». Ales-sandra Fontana non è una maestra alle prime armi, da anni lavora con Babel, una cooperativa sociale torinese che si occupa di richie-denti asilo e rifugiati, afghani, siriani, somali, quelli con centina-ia di chilometri sulle spalle per cui la lingua è il primo passo ver-so l’integrazione. Stavolta è diverso. I volontari della Brigada Henry Reeve che siedono dietro ai banchi non sono soltanto professioni-sti plurilaureati. Nonostante la durissima crisi economica, inaspri-ta dalla sovrapposizione tra le nuove sanzioni americane e il crol-lo del turismo seguito alla pandemia, il sistema educativo cubano

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134CHIAMAMI CON IL MIO NOMEconserva, a detta della Banca Mondiale, il primato nell’area lati-noamericana e Caraibi, con un tasso di alfabetizzazione del 99% che resta, insieme alla sanità pubblica, la vera medaglia sul petto di una rivoluzione per altri versi, dai rapporti sulla libertà di stam-pa di Reporter Senza Frontiere a quelli di Amnesty International sui prigionieri di coscienza, sorita.«Mi sono trovata di fronte studenti modello, i migliori che abbia mai avuto, attenti, ricettivi, curiosi». Il nodo per Alessandra Fontana e la sua classe non è la consecutio temporum. Il corso serve a comunicare all’interno delle OGR, con la lingua della medici-na e uno specico vocabolario da arricchire in eri, e fuori, al di là del cancello, dove sin dai primi giorni sparuti gruppi di torine-si stazionano dandosi il cambio. Non sono curiosi che passano e gettano un’occhiata, Torino è spenta e deserta, per allontanarsi da casa anche solo pochi isolati servono l’autocerticazione e un motivo più che valido. C’è piuttosto chi vorrebbe notizie di un parente ricoverato, ci sono quelli che, eredi ideali di un’antica tradizione cittadina di Santi Sociali, portano cibo per i volontari. Sury, la titolare della gastronomia cubana La Isla, si presenta un bel mattino con un pentolone di congris, riso, fagioli neri, foglie di lauro e pancetta, che lascia spiazzato il guardiano abituato ad ammettere esclusivamente gli addetti ai lavori. Il garzone della pizzeria a cui sono state ordinate alcune decine di margherita ne consegna il doppio e non prende nulla, ha l’incarico tassativo di non accettare denaro, omaggio della casa. E poi le ciliegie, spe-dite da un coltivatore del Cadore entusiasmatosi per i racconti della glia volontaria, otto chili di ciliegie rosse e polpose come palloncini del luna park. O il gelato, “   ’ ’”, la scritta evocativa sulla grande confezione recapi-tata a mano dal fattorino di una antica gelateria locale. È Adrián, l’epidemiologo, l’unico fumatore della Brigada, a tenere i rappor-ti con l’esterno: solo Adrián esce dal bunker senza luce naturale per la pausa sigaretta, si abbassa la mascherina e, tra una bocca-ta e l’altra, scambia due parole, chiede un accendino in prestito, rompe il ghiaccio per tutti.

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136CHIAMAMI CON IL MIO NOMELa scuola d’italiano è scuola di sopravvivenza. Comunicare ser-ve agli uomini e alle donne in terapia semi-intensiva che guarda-no l’avatar appiccicato sul camice e cercano un varco attraverso le protezioni, la mascherina, gli occhiali avvolgenti come l’attrezzatu-ra da subacqueo, la cufa. Serve ai medici e agli infermieri cubani che operano con gli strumenti sosticati di cui non dispongono in patria ma anche con l’esperienza della loro medicina, più povera, avvezza a utilizzare quanto c’è e fare leva sul paziente come siste-ma complesso, non un corpo malato ma un corpo, non un pro-blema individuale ma sociale. Le parole giuste per dirlo, tutto qui.

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137Julio che voleva fare l’ingegnereE     J G I  fare l’ingegnere, l’astronauta no, la Guerra fredda per la conquista dello spazio tra Yuri Gagarin e Neil Armstrong non l’hai mai sedotto. Poi alla ne è diventato medico e, ogni vol-ta che parte per una missione sanitaria all’estero, racconta al glio, che perde la vista sui circuiti elettrici, come la vita possa modica-re vettori e prospettive. Lui che da oltre vent’anni lavora all’Ospe-dale Gustavo Aldereja Lima di Cienfuegos, l’eccellenza cubana in materia di malattie renali, aveva visto la selva venezuelana, dove per portare le medicine alle comunità indie bisogna aspettare ore il passaggio dell’elicottero lungo il ume Orinoco e mesi per tor-nare indietro. E aveva visto Gibuti, il fazzoletto d’Africa ritagliato tra Etiopia, Eritrea e Somalia, dove con un gruppo di connaziona-li ha messo su il primo centro nefrologico della regione e tutt’ora uno dei pochi nel raggio di migliaia di chilometri. Non era però mai stato inviato a guidare una Brigada di volontari nel cosiddetto Primo mondo, l’Italia piegata dallo sconosciuto -, la lon-tanissima Torino, una sda verso l’ignoto per la piccola isola carai-bica, paragonabile, questa sì, alla sortita dell’Apollo 8 nello spazio.«Sono alla mia quarta missione sanitaria all’estero, ma per la pri-ma volta, partendo per l’Italia, avevo a che fare con la settima eco-nomia del mondo e non con un Paese in via di sviluppo» racconta Julio e ripensa all’eccitazione mista ad ansia dell’inizio, la respon-sabilità di organizzare e coordinare un’équipe di professionisti che in patria guadagna al mese quanto uno specialista italiano prende per una visita. Da Cuba seguono senza distrarsi, la Brigada porta in Europa il soft power cubano ma al tempo stesso restituisce in patria l’esperienza di un’emergenza da non sottovalutare. Appena Julio nisce il turno il telefono si scatena, il ministero chiama con la fre-quenza con cui lo chiama la moglie, tutti a L’Avana vogliono sape-re come va quello che a Torino si sperimenta giorno per giorno.Julio è un’autorità a Cienfuegos, vicedirettore dell’ospedale e

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139JULIO CHE VOLEVA FARE L’INGEGNEREmedico di territorio, uno che passa dalla sala operativa alla sala operatoria, come se l’Italia si privasse contemporaneamente del manager del Gemelli e del suo primario. E parte. I colleghi italia-ni affrontano il male a mani nude, ad aprile, poco più di un mese dopo l’esplosione della pandemia, ne sono già morti cento. Nessu-no conosce potenzialità e punti deboli del virus che attacca da tutti i fronti. Si procede a tentoni. È la messa in comune delle specializ-zazioni che fa la squadra, nefrologia, epidemiologia, dermatologia, neurologia, pneumologia, cardiologia, il citatissimo “approccio oli-stico” che nell’incertezza della sda mantiene il timone al centro. Come quella volta che non riuscendo a svuotare con la siringa i polmoni di un paziente delle OGR Julio scommette sui reni per drenare il liquido e vince.«Ho riportato a casa una cioccolata talmente buona che mia moglie ancora ne parla, ma ho riportato con me anche l’esperien-za straordinaria di una relazione professionale costruita passo dopo passo nell’ora più difcile, quando la metodologia terapeutica non era chiara e si poteva solo imparare vicendevolmente».La pratica guida la teoria. Cartelle cliniche, il computer portati-le sul tavolo montato davanti alla tenda della Croce Rossa, medici cubani e giovani medici italiani, quelli venuti da lontano e quelli condannati nel nostro Paese a restare ricercatori in eterno, pluri-specializzanti e precari. Julio, nel frattempo, ha compiuto 44 anni, li ha festeggiati il 26 maggio senza fanfare, un tortino che «lo man-giamo a ne giornata» e un cuore disegnato sul camice come un distintivo guadagnato sul campo quel giorno, in zona rossa come ogni giorno, senza tempo, lui e Michele con un malato da salvare e riuscire a salvarlo, “il vero regalo di compleanno”.A ne giugno i pazienti cominciano a recuperare. Chi viene dimesso, saluta, ringrazia, si chiude alle spalle la pesante porta da cui la luce ltra appena il tempo di delimitare il dentro dal fuori e ritrova Torino. Julio non conosce nulla di Torino, in due mesi è uscito un paio di volte dalle OGR, un seminario al Gruppo Abe-le e un sopralluogo sulle rive del Po per studiare con i colleghi dell’amministrazione comunale il ritorno all’aperto dei bambi-ni. Poi un giorno, prima di partire, sale ai Cappuccini e abbraccia

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144JULIO CHE VOLEVA FARE L’INGEGNEREcon un solo colpo d’occhio la città che ha curato. Il ume balugi-na tra parchi e palazzi, le OGR sono laggiù, vicino al grattacielo di Intesa San Paolo che dall’alto sembra quello di King Kong e gareg-gia in gigantismo con la Mole. Ci fosse modo, sarebbe bello visita-re la Mole Antonelliana. E nirà così, l’unica tappa turistica del-la Brigada, la Mole, il Museo del Cinema, l’ascensore panoramico no perché in manutenzione ma sarà per la prossima volta. Tanto ormai Julio Guerra Izquierdo è torinese, cittadino onorario, uno di casa e non si fa per dire.

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145Come una guerraL         descrivere la pandemia, la trincea, la guerra di posizione, la prima linea del personale sanitario. Mentre le ondate si susseguono, gli armistizi, annunciati e violati, rimandano di mese in mese la ne delle ostilità. Chi non si stanca di servirsene nel con-testualizzare la sua esperienza alle OGR è Alessandro De Prado, 53 anni, anestesista, intensivista, rianimatore, diviso tra l’Ospeda-le San Giovanni Bosco e l’emergenza territoriale con l’elisoccor-so della Regione Piemonte. Non si stanca del parallelo perché la guerra vera l’ha vista sul campo nel 2012, ufciale medico dell’e-sercito richiamato in Afghanistan con la missione ISAF, ha operato con il IX Reggimento Alpini tra le montagne inospitali dove «biso-gna fare di necessità virtù, farsi bastare quel che si ha, imparare dall’esperienza e trasformare l’emergenza in routine». Alle Ofci-ne Grandi Riparazioni, dice, è andata proprio così, senza l’elmetto ma con l’urgenza di ridisegnare le regole in corsa «scoprendo che tutto si può fare, trovando all’occorrenza risposte inimmaginabili come curare i malati in una fabbrica di locomotive».Il dottor De Prado è alle OGR sin dalle prime battute. È il responsabile dei letti di terapia intensiva e subintesiva ma anche l’ufciale di collegamento, per rimanere nella cornice militare, tra la nuova struttura da allestire e l’Ospedale San Giovanni Bosco che la gestisce. Il nostro uomo a L’Avana.Torino sotto schiaffo del - come l’Afghanistan della ormai ventennale guerriglia seguita all’intervento Nato o come un alpinista in difcoltà sullo strapiombo di una parete rocciosa che aspetta il soccorso dell’elicottero. Un parallelo forte, ma un po’ è così. «Per quanto strano possa suonare, l’approccio, che lo si denisca olistico o di estrema ratio, è lo stesso. Facendo sorridere i miei colleghi italiani e cubani dicevo che necessitavamo di tan-ta scienza e fantasia, come quando nella provincia di Farah, a sud di Kabul, assistevo sulla strada i militari dell’esercito afgano feri-

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146COME UNA GUERRAti dalle mine costruite artigianalmente. Come durante i turni di guardia con l’elisoccorso, quando noi volontari con zaini da supe-reroi trattiamo traumi importanti a mani nude e in ambiente dif-cili, dalla capanna Regina Margherita sul Monte Rosa all’auto-strada o alla pianura padana, dall’incidente agricolo all’infarto in una località remota. Se devi stabilizzare il paziente per condurlo in una struttura di cura appropriata ci vogliono gli strumenti adat-ti ma ci vuole anche la mente aperta, dove l’elicottero non riesce ad atterrare può funzionare da staffetta il pick-up di un contadi-no. La scienza è la base ma spesso non è sufciente: è il caso delle OGR. I malati presentavano sintomi mutevoli, non rispondevano sempre alla medesima terapia e si dovevano esplorare vie alterna-tive, erano in isolamento e chiedevano che ci si facesse carico delle relazioni famigliari interrotte. Ci siamo intesi subito con i cubani. Io, abituato al fatto che l’ufciale medico è un soldato e vive gior-no e notte insieme al fuciliere, loro, formati come équipe a tutto tondo, medici prima che epidemiologi, pneumologi e cardiologi, chiamati a collaborare per occuparsi del malato nel suo insieme, sico, sanitario e sociale».La Henry Reeve ha ripreso la strada di casa per ripartire a stretto giro come le altre 27 brigate sanitarie internazionali disseminate il 40 paesi, Cuba inaugura il 2021 con il record di contagi ma anche con l’annuncio di quattro vaccini in dirittura d’arrivo di cui due già in applicazione controllata a una fetta ampissima di popolazione, il dottor De Prado è tornato nel suo ospedale e da lì l’hanno inviato a tirare le la all’ex oftalmico Casimiro Sperino, 60 posti ordina-ri e 15 intensivi, un nuovo reparto  quando, a tre mesi dalla somministrazione delle prime dosi, l’Italia e il Piemonte avrebbero dovuto essere fuori dal guado. In verità lo aspettavano in Afghani-stan, era stato richiamato ancora una volta. Dovrà rinviare, ci vor-rà tempo, «la guerra si è spostata da noi».

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147Quelli che il virusA  R     ,  sacerdoti del lavaggio delle mani reiterato no a consu-marle, vale a dire quella particolare gura professionale che prima di scoprire l’esistenza di una remota città cinese chiama-ta Wuhan associavamo distrattamente al medico burocrate chiuso in un ufcio polveroso a rmare documenti sul rischio. Abbiamo imparato invece che l’epidemiologo è un perno: studia le cause, il decorso e le conseguenze delle malattie per stabilire, statistica alla mano, con quale frequenza i virus si diffondono nella popolazione e con che tipo di pervasività. Praticamente, ghostbusters.Il - ha ribaltato la nostra prospettiva sulla prossemica ma anche sulla scienza medica. Quello che ieri ci sembrava sio-logico come una stretta di mano è terreno minato, mentre il dot-tore che può quanticare la contagiosità di uno starnuto brilla di luce propria nell’olimpo dei salvatori della patria. In questa corni-ce vanno inquadrati i cubani che, prestati dal mondo in via di svi-luppo a quello sviluppato, si sono presentati alle OGR di Torino con la vecchia cassetta degli attrezzi, tanti chiodi e poco trapano elettrico. Adrián e René.«È una guerra biologica che penetra sottopelle, condiziona i comportamenti, impone un livello di stress continuo da cui alla ne non si stacca mai» ammette Adrián che è tornato a Cuba giusto il tempo per dirottare sul Messico, oltre 320 mila vittime, il Paese con più morti in rapporto al numero di abitanti. A Torino, di not-te, sognava il suo lavoro, sogni appaganti di persone salvate e incu-bi spaventosi di dettagli dimenticati, imprevisti, il bivio e la scelta sbagliata. Non che oggi maneggi materia meno incandescente, ma l’Italia sta lì, lontana e indifesa, un unicum anche per un veterano come Adrián, sette missioni all’estero di cui una in Africa contro Ebola e poi Haiti divorata dal colera, il maremoto in America latina.Quel che ha appreso, Adrián se lo porta dietro, «ho sperimen-tato materiali di primissima qualità con cui mai avrei potuto lavo-

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152QUELLI CHE IL VIRUSrare». Quel che ha lasciato è il bilancio di un intervento risoltosi a costo umano zero, con lui e René a supervisionare la sicurezza epidemiologica e la biosicurezza, senza che dalle OGR uscisse un solo sanitario contagiato.Adrián e René sono gli epidemiologi ma anche due icone della Henry Reeve, originario il primo di quella tuttora povera Holguín, la città dei Parchi da cui pure proveniva Fidel Castro, e l’altro nato a Puerto Padre, il villaggio di pescatori a sud del mondo, oltre le campagne orientali della Provincia di Las Tunas, terra nota solo per la sua caldosa, la zuppa “essenziale” ma saporitissima. Incarna-no, entrambi, l’ambizione all’emancipazione della Cuba remota, il nostro Meridione, la famiglia che investe, l’università, la profes-sione di cacciatore di virus che prima del - non faceva cur-riculum in Europa ma lo faceva a Cuba, dove, medaglia naziona-le, si contano ben 8 medici ogni mille abitanti, il doppio dell’Italia con un sesto della popolazione, un esercito al cui interno gli epi-demiologi costituiscono un reparto 12 volte superiore al nostro.Quando a Torino René si blocca all’improvviso per l’ernia del disco c’è Adrián che rimpiazza, una settimana di turni giorno e notte nché il collega non torna, dolorante, eretto e rigido nel monitorare la vestizione, presente. Quando il Comune chiede una mano loro ci sono, Adrian e René. Serve il corso di prevenzione al Gruppo Abele e c’è solo la pausa pranzo per metterlo in piedi, Adrián e René. La formazione per riaprire i centri estivi municipa-li, Adrián e René. Un piano per recuperare i parchi dopo il lock-down, Adrián e René. Raccontano i colleghi italiani di averli visti più volte, la notte, sul divano davanti alla macchinetta caffè del-le OGR anziché nella camera da letto dello studentato, curvi sulle mappe cittadine a studiare la dislocazione delle zone verdi.Sono ancora piccoli i bambini di Adrián perché papà spieghi loro le missioni che lo tengono lontano da casa e l’affetto per l’Ita-lia. Un giorno dirà loro del signor Mastroianni ammalato di diabe-te, di Maria Luisa Catena che non guariva mai e degli infermieri, quelli a cui in occasione della giornata mondiale della categoria, il 12 maggio, ha regalato una chiavetta usb di musica cubana.

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153Comincia tuo con i polmoniC    ,  , ’,  stanchezza che sale da dentro. Il virus S-CV-, di cui no a dicembre del 2019 ignoravamo la minaccia, attac-ca l’enzima che difende i polmoni dalle infezioni e da lì si molti-plica giocando con mosse astute la sua partita a scacchi contro il sistema immunitario. In pochi mesi siamo diventati esperti d’un lessico di cui avremmo fatto volentieri a meno, ma tant’è: polmo-nite interstiziale o bilaterale, saturimetro, tampone rapido e siero-logico, casco ventilatorio, tempesta citochinica, idrossiclorochina.«I medici sono stati i primi a dover imparare i codici della nuo-va sda e, nel nostro caso, credo sia stata molto utile la capacità di intervenire su più livelli, concentrarsi sul sistema più che sull’or-gano» spiega Miguel Acebo, 37 anni, pneumologo della Brigada cubana, lo specialista di raccordo intorno al quale per l’intera durata della missione ruota il sistema multidisciplinare costitui-to dai compagni, compresi i medici specializzandi italiani, il ner-bo operativo della struttura. Se ci fosse bisogno di un’immagine per illustrare la popolarità del “dottor Miguel”, il medico di con-tinuità, basterebbe lo sciopero nazionale del 29 maggio 2020, quando, in piena pandemia, la richiesta di una riforma sanitaria emancipata dai tagli di budget porta in piazza gli specializzandi di ventuno città italiane, un’adesione massiccia di giovani medici con l’eccezione delle OGR, dove si recano al lavoro regolarmen-te: sono una decina, tengono in mano un cartello di simbolica adesione alla mobilitazione con scritto   - e hanno disegnato sulla tuta l’hashtagh #stopimbutofor-mativo ma si lavano, si bardano e vanno in corsia. «Per rispetto dei colleghi cubani» diranno, perché, pur rivendicando un trat-tamento dignitoso, non vogliono lasciare soli quegli specialisti d’eccellenza partiti volontari da L’Avana rinunciando all’inden-nità di cooperazione medica alla quale erano destinati per ser-vire in una missione senza diaria, con il salario base di duecento

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154COMINCIA TUTTO CON I POLMONIdollari al mese e pochi spicci in tasca per comprare una tavolet-ta di cioccolato da riportare a casa.Mentre scriviamo, Miguel Acebo è in Messico. Prima di Tori-no, che conosceva solo in quanto tifoso sfegatato della Juventus, aveva lavorato alcuni mesi in Venezuela. «Ho trascorso la maggior parte del mio tempo alle OGR in zona rossa ed è stata una gran-de opportunità. Avevamo soprattutto pazienti italiani ma c’erano anche lippini, senegalesi, una signora rumena. Ringraziavano sempre per qualsiasi trattamento e non riutavano mai una cura, non erano scortesi, ci accoglievano con un sorriso anche quando le loro condizioni erano preoccupanti. Giovanna, la nostra bambi-na di 93 anni, ha lottato per settimane contro la morte, aveva del-le complicazioni serie, provava nostalgia per la famiglia, mi guar-dava sforzando gli occhi per oltrepassare i mille strati protettivi di plastica e acrilico e mi diceva “Tu sei Miguelito!”».I malati si proiettano sui medici e viceversa. Miguel è il nome che ricorre più frequentemente nelle lettere lasciate accanto all’albero della vita dai pazienti dimessi nonostante, da pneumo-logo, fosse il più temuto. Per quanto dolce sia la cura, comincia tutto con i polmoni e dai polmoni deriva il decorso della malat-tia o la sua rapida impennata. Chi c’era non dimentica l’incon-tro tra Giovanni Casella e il dottor Miguel davanti alla solita mac-chinetta del caffè delle OGR ormai prossime alla chiusura, due che si conoscono intimamente ma non si sono conosciuti nella vita reale. È giorno di prova. Casella, guarito, torna indietro, uni-co ammesso agli inferi del -, per accordare gli strumenti con Ileana Jiménez e programmare il concerto del Parco Dora. È facile pensare a Orfeo, il viaggio a ritroso, la musica, l’oppor-tunità di oltrepassare la morte. Si guardano, stentano, si ricono-scono. Miguel con il bicchierino alla bocca e senza mascherina. È il medico che passo passo ha tirato fuori Giovanni da una lun-ga ospedalizzazione e gli ha restituito la mobilità, anche per lui è difcile, l’uomo che ha di fronte non è lo stesso eppure lo è. Non c’è contatto, se non un impacciato sorarsi di avambracci e risorarsi ancora, le loro strade non si sarebbero incrociate mai e però sono al crocevia.

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156COMINCIA TUTTO CON I POLMONITorino ha turbato tanto Miguel. L’immaginava come immagi-nava l’Italia dei lm, solare, caciarona, piena di gente in strada e l’ha trova bella e triste, tesa come le bandiere tricolori ai balconi, disperata come gli striscioni “ ”, disciplinata come in attesa composta d’un cenno dal cielo, the waste land.Non c’è cambio turno in cui, prima della riuinone medica, Miguel non chiami casa, riparato dietro la tenda militare scarica la tensione delle lunghe guardie telefonando al padre, alla sorella, alla moglie, alla piccola Paola di 5 anni. Racconta quanto è difci-le star loro lontano, parla del male - che a Cuba conosco-no poco, descrive la città ferita. Tornerà a L’Avana e giocheran-no a baseball, ma non rimpiange di essere partito. Lo rifarebbe, «lo rifarò».

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157Professione infermieraN       protagonisti. Martina è un’infermiera di trent’anni che dopo aver lavorato in corsia accanto ai primi, provatissi-mi, malati di -, pensa di averla fatta franca. Siamo all’ini-zio di maggio. La pandemia rimane stabile ma, vuoi la convinzione diffusa che il caldo nuoccia al virus e vuoi l’intima profonda fati-ca di vivere, l’Italia spera nel giro di boa. Il giorno della festa del lavoro, ricorrenza surreale in un Paese completamente fermo, il responsabile della Protezione Civile Angelo Borrelli ha annunciato che d’ora in poi le conferenze stampa bisettimanali con il bolletti-no dei contagi passeranno il testimone al sito internet, un comu-nicato stampa al giorno. Siamo in via di guarigione? Così si crede. Lei però, Martina l’infermiera, si ammala. Probabilmente succe-de in ospedale, non sa dirlo. In quel periodo non c’è granché da fare, a parte il lavoro. Fatto sta che dopo la febbre alta, la tosse e l’aggravarsi delle difcoltà respiratorie viene ricoverata all’Ospe-dale Molinette, uno degli ultimi con un reparto  nella Tori-no che intravede l’uscita dal tunnel. Le condizioni non migliora-no, i polmoni stentano, i tamponi restano positivi: è così che dopo una settimana alle Molinette Martina nisce alle OGR, l’ex catte-drale industriale di cui, pur avendo abitato a lungo nelle vicinan-ze, ignorava l’esistenza.«Il primo impatto con le OGR è stato spaventoso. Avevo vissuto per settimane a contatto con il virus e in qualche modo pensavo di esserne fuori. Invece, non so come, forse perché avevo patologie pregresse, mi ammalo. Da quel punto è tutto un andare peggio. Quando mi portano alle OGR, una struttura senza nestre e senza luce naturale, penso, per confortami, a quando ne uscirò. In quel momento ignoro che per tornare a casa passeranno due mesi».Martina è viva, il - le ha lasciato conseguenze pesanti, affanno, una cecità temporanea frutto verosimilmente di un’alte-razione del sistema immunitario, si è trasferita in Lombardia, lon-

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158PROFESSIONE INFERMIERAtanissima dalle OGR che spera un giorno di visitare per il piacere di farlo, ma è viva. Delle settimane di degenza le è rimasta Maria Pia, la vicina di letto con cui si sente regolarmente, il dottor Miguel che le scrive su Facebook per domandarle come sta, la memoria che ha ltrato i ricordi dell’angoscia e trattenuto gli altri.«La prima immagine è Giovanna, un signora di 93 anni che era ricoverata nel mio stesso stanzone insieme a Maria Pia, ma stava peggio di noi. I medici e gli infermieri cubani sapevano che ero infermiera anche io e per tirarmi su mi coinvolgevano, capivano che per noi abituati ad occuparci degli altri è più difcile chiedere aiuto, si consultavano con me su cosa potesse far bene a Giovanna. Io vedevo che lei soffriva molto la solitudine, mangiava poco, resta-va sveglia, dicevo che bisognava darle presenza. Poi a turno ci siamo presi cura di lei, le pettinavamo i capelli, controllavamo che beves-se. Seguire i miglioramenti di Giovanna era quello che mi faceva sentire meglio, per il resto desideravo una doccia vera invece del bagno da campeggio della Croce Rossa, divoravo i libri che man-davano i miei amici ma non trattenevo nulla, il tempo non passa-va mai. Ci si puntellava con l’attenzione reciproca, erano i cuba-ni a incoraggiarla, ne hanno avuta per tutti, tenevano insieme la dimensione clinica del malato e quella emotiva, la fatica, la pau-ra, l’incertezza, sono intervenuti con una medicina di pochi mezzi ma a 360 gradi, un metodo che qui in Italia abbiamo dimenticato. Una volta ci hanno regalato la luce del sole, hanno permesso a me, Giovanna e Maria Pia di uscire venti minuti nel “cortiletto”, pochi metri recintati all’esterno dell’uscita d’emergenza ma veri, l’aria, il cielo. Ci siamo guardate intorno e abbiamo pianto».Sono passate tante e tanti come Martina alle OGR. Le lettere che hanno lasciato mentre venivano dimessi raccontano con paro-le semplici, molto simili tra loro, lo sgomento per una malattia che non ti aspetti così violenta, il bisogno di essere toccati, la mancan-za di abitudini e persone date per scontate, la gratitudine per quei dottori che parlavano un’altra lingua ma si sforzavano di compren-dere. Come quella volta che hanno portato un proiettore e hanno permesso ai pazienti di organizzare un cineforum, Martina passa-va tra i letti con il programma concordato insieme a cominciare

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159PROFESSIONE INFERMIERAda Vacanze romane. Sono documenti in qualche modo storici, fogli volanti, scritti a mano, il primo pensiero libero.Il giorno in cui Martina lascia il suo appunto lo ricorda caldissi-mo, un mattino d’inizio luglio. Le OGR chiuderanno a breve e lei è ancora positiva. È una degli ultimi dieci rimasti insieme a Maria Pia e Giovanna, che è debole ma negativa. A salutarli sono venu-ti tutti, il dottor Miguel che «capiva tutto», la specializzanda italia-na «che mediava per tradurre le espressioni più difcili», medici e infermieri, quelli in turno e quelli di riposo. L’applauso, dice Mar-tina, è catartico: «Non ce lo aspettavamo ma era l’epilogo giusto. Io ero così emozionata che ho fatto una guraccia, vedevo tutti quei visi che no ad allora avevo solo immaginato dietro le mascherine e quando il giornalista Enrique mi è venuto incontro presentan-dosi mi sono protesa per abbracciarlo. Che vergogna, tutti hanno gridato no, no, no, era pericolosissimo, io ero positiva. Poi però abbiamo riso. È lì che ho imparato la lezione delle OGR, i rappor-ti umani cambiano la storia».

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162Quanto dura il tempoD ,   H B. L coscienza come unico metro per misurare il tempo. Giorni felici che scivolano via così e l’innitamente len-ta cadenza del dolore. Poi tutto passa comunque. Passano le con-ferenze stampa governative con la sinistra conta dei morti, passano le immagini della coda di ambulanze in attesa davanti agli ospe-dali, passa la nebulosa nera del virus che, misterioso com’è arri-vato, pare adesso arretrare. Resta il peso di questa primavera lun-ga anni e resta l’eco lontana delle canzoni dai balconi segregati, andrà tutto bene.Le OGR stanno chiudendo i battenti, manca poco ormai e i macchinari scomposti come Lego saranno rimontati nelle rispetti-ve nuove destinazioni. Fino a un paio di settimane fa pochi avreb-bero scommesso su questa incontenibile euforia da happy end che dilaga in città mentre i reparti  si svuotano uno dopo l’al-tro. Invece va così, i pazienti, un po’ alla volta, vengono dimessi, i volontari tirano il ato, i medici italiani fanno scorta d’esperien-za, condando in cuor loro che non serva già domani. I cubani preparano i bagagli.A lungo le autorità si sono opposte alla festa d’addio ambi-ta dai sopravvissuti, troppo ingombrante lo spettro della secon-da ondata, troppo incerta la parentesi estiva. Il prefetto frena. La scienza indugia. Bisogna però osare, dire “la ne del tunnel” afn-ché ne veramente sia.Qualcuno sbullona i respiratori che per tre mesi hanno pompa-to speranza, qualcun altro allestisce il palco con le bandiere e i pal-loncini per il concerto della remuntada. Domenica 12 luglio, sotto un cielo formato Magritte, Torino saluta al Parco Dora i cubani che tornano a casa. È il primo evento pubblico dopo centoventi giorni di quarantena, la chiusura del cerchio. Al pianoforte c’è Giovan-ni Casella, dimesso il 5 giugno dalle OGR con una busta di oggetti personali e le dita addormentate, uno letteralmente uscito fuor dal

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163QUANTO DURA IL TEMPOpelago alla riva, direbbe Dante Alighieri. Al microfono c’è Ileana Jiménez, traduttrice volontaria della Brigada Henry Reeve, emigra-ta da Cuba più di vent’anni fa per studiare canto al Conservatorio Giuseppe Verdi e rimasta nel capoluogo piemontese per amore. La musica è scesa in strada, la sirena delle ambulanze rallenta sul-lo sfondo, Bellini duetta con il repertorio classico cubano, ritmo e malinconia. La Bayamesa, Vaga luna, El Negro Bembon.Quattrocento persone sedute alla stessa tavola rappresentano una sda impegnativa di questi tempi, perché la condizione è il distanziamento ma, di fatto, la barriera tra i sommersi e i salvati non c’è più. Ex pazienti, dottori, infermieri, volontari, amici, Julio, sempre lui, anima e corpo della Brigada, che da qui a due giorni riceverà dal Comune la cittadinanza onoraria, primo e unico cuba-no insignito da una grande città italiana con il titolo che nel 2013 l’allora sindaco Piero Fassino avrebbe concesso alla blogger Yoani Sanchez se il consiglio municipale non si fosse spaccato. Voci che diventano volti, pezzi di storie ricomposte che trovano casa in un presente assoluto. Entropia.«Quella volta che un cargo di aiuti provenienti dall’Italia sca-ricò al porto di Santiago l’olio d’oliva, ero un ragazzino e in fami-glia ci si sfamava friggendo bucce di banane» racconta Abel Tobías. «Quella volta che organizzai un cargo di aiuti da inviare a Santiago di Cuba, ero un militante che lavorava già con il sindacato di Lula» racconta Renato Forte. Il cargo è lo stesso. Loro, nati a distanza di quasi mezzo secolo, siedono a poche centinaia di metri. Santiago come Torino, trent’anni e un’epidemia dopo. Abel Tobías è cre-sciuto in un quartiere poverissimo, dove Fidel Castro, la proiezione leggendaria dello Stato che prende per mano un ragazzino senza scarpe e lo accompagna alla laurea in medicina, restava il model-lo politico ideale anche mentre il blocco sovietico crollava pezzo a pezzo. Era il principio degli anni ’90, il Periodo Especial per Cuba che resisteva con la forza del mito al redde rationem della Storia, la crisi dei balzeros per il mondo che guardava i cubani affrontare il mare alla ventura come oggi i fantasmi del Mediterraneo. Renato Forte è un signore dall’eloquio affabulatore, è stato responsabile nazionale della CGIL di Bruno Trentin, quella dei metalmeccani-

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166QUANTO DURA IL TEMPOci lmati dalla Wertmüller e dell’accordo sulla scala mobile. Negli anni in cui Abel Tobías vagheggiava dai banchi di scuola la missio-ne politica del camice bianco, Renato metteva in piedi una rete di cooperazione con Cuba, una scuola di restauro, una donazione importante, un container da inviare oltreoceano, cibo, olio d’oli-va. Adesso Abel Tobías e Renato sono qui, vicini. Non si conosco-no. Li presentano. Renato è anche il babbo di quel Roberto che gura tra i fondatori di AICEC e ha tenuto a battesimo l’ospeda-le delle OGR. L’abbraccio è totale, onnicomprensivo, avvolge chi c’è e chi non c’è più.«Credevo di morire, ho 56 anni e ho sempre avuto una vita sana, ma ho creduto di morire, è successo tutto all’improvviso, dal gior-no alla notte, stavo bene e poi di colpo il precipizio» racconta Gio-vanni Casella ora che invece suona, vive, ha ripreso, sia pur solo in video, a insegnare al liceo musicale. La ruota gira ancora. La pau-ra si riaffaccia con le varianti, le nuove inaspettate chiusure, l’oriz-zonte incerto del vaccino e la notte che si allunga di pensieri tanto cupi da resistere all’alba. Il Parco Dora sta lì, nella durata interiore, Giovanni, Ileana, Abel Tobías, Renato, i li della storia, un nodo.

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168¡Que viva Torino!S         cubana è sbarcata in una Torino senza ossigeno. Al bienve-nidos smarrito di quel lunedì di Pasquetta, che come tutti i fotogrammi di questa quarantena sfuma in un altrove temporale lontano, è seguito un hasta luego più rinfrancato, la tempesta infuria ma la riva è sotto i piedi. O almeno così pare. I cubani sono ripar-titi su un volo di linea tutt’altro che vuoto, perché adesso, incorag-giati dal bonus vacanze introdotto dal governo, gli italiani s’arri-schiano a viaggiare di nuovo, sia pur muniti di visiera e mascherina i passeggeri si affollano ai gate recitandosi la rassicurazione degli esperti sulla vulnerabilità del virus al caldo estivo. Si ricomincia.Gli ultimi tre pazienti hanno appena lasciato la struttura, uno dimesso e due trasferiti altrove. Sotto la pressione del ritorno alla normalità l’ospedale temporaneo allestito all’interno delle OGR ha chiuso i battenti per restituire lo spazio alla città ferita, come se si potesse davvero riavvolgere il nastro e tornare ai tre anni preceden-ti, quando il maestoso tempio della locomotiva, ripescato dall’oblio del Novecento e riconvertito al loisir, stressava volte e vetrate con la musica di Elisa, Ghali, Chemical Brothers, le assembratissime jam session elettroniche di Club-to-Club. L’innocenza perduta però non torna: tornano invece alla ASL 3 i macchinari prestati all’ini-zio di aprile e quelli arrivati nuovi di zecca che vengono distribuiti tra l’Ospedale Oftalmico, il San Giovanni Bosco, il Maria Vittoria.Torino non spreca, non spreca per cultura ancestrale né risorse né emozioni. «Piango già solo al ricordo di quelle ore in cui smon-tavamo la struttura che avevamo allestito in un baleno, lo facevo lentamente forse cercando in cuor mio di prolungare quella espe-rienza. Sono stata tra i primi a entrare, ero lì sin da quando i tec-nici tracciavano l’impianto elettrico e sono stata l’ultima a uscire, a chiudermi la porta alle spalle» racconta la coordinatrice infer-mieristica Alessandra Monzeglio, volontaria prestata dall’Ospeda-le Amedeo di Savoia. Come lei, molti di quelli che hanno lavorato

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171¡QUE VIVA TORINO!al anco della Brigada cubana scrivono di portarsi dentro la forza di un’avventura umana prima ancora che professionale. Lo scrivo-no sui social, la seduta psicanalitica del presente. Le OGR hanno chiuso il cerchio senza che nessun medico, nessun sanitario, nes-sun addetto alla ristorazione o alle pulizie si ammalasse, uomini e donne che, salutati i colleghi all’aeroporto di Caselle, sono torna-ti alle loro trincee quotidiane, ospedali, reparti , ambulato-ri, e, a più riprese, nelle settimane successive, sono stati contagiati.Il 21 luglio è martedì. L’Italia respira e forse, col senno di poi, respira anche troppo allegramente. Con le prime stelle luccicanti sulla città incorniciata dalle Alpi si accende la Mole Antonelliana, i colori di Cuba proiettati sulla facciata del simbolo di Torino salu-tano gli amici collegati in streaming da L’Avana, le famiglie che sfogliano a distanza l’album della nuova grande famiglia. «Se ser-ve torneremo» hanno buttato là Julio e gli altri, congedandosi sul-la scaletta dell’aereo. Si fa per dire. Ci saranno altre occasioni e, dietro alla schiena, s’incrociano le dita sperando il contrario. Inve-ce no. Non passeranno che pochi mesi e il Piemonte chiamerà di nuovo, la seconda ondata, il panico che non nisca più, i medici cubani che preparano i bagagli e aspettano il semaforo verde pri-ma di dirigersi altrove, in Messico, in Venezuela: perché l’Italia a novembre spera ancora di farcela. Ma questa è un’altra storia, che speriamo di non dover raccontare.

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175Indice tesPerché e perché ora � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � 5M CVoyager 3: Batas Blancas Universali! � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � 11M CCubanos en Turin: una storia d’amore � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � 15E U GRitra � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � 107F PLa mala ora � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � 110The waste land � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � 115Victor il gladiatore � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � 118L’albero della vita � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � 122Come in uno specchio � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � 126Non ci pensiamo mai alle mani � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � 129Chiamami con il mio nome � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � 133Julio che voleva fare l’ingegnere � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � 137Come una guerra � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � 145Quelli che il virus � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � 147Comincia tuo con i polmoni � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � 153Professione infermiera � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � 157Quanto dura il tempo � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � 162¡Que viva Torino! � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � 168

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176Indice immaginip. 8 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . d Col del Lys, Val di Susa. La Brigada che, alla ne della sua missione, ha scalato la cima del Pico Fidel e canta l’Inno Nazionale cubano. © D Bp. 16 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . d Parco Dora, Torino. Murales in onore di Cuba e del personale sanita-rio accorso a Torino per combattere il -. Sono stati più di 2900 i medici cubani operanti in 22 Paesi, tra cui il Nord Italia, nei primi mesi dall’inizio della Pandemia. Per la prima volta in Europa. © D Bp. 22 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ( ) d OGR, Torino. Jorge Madiedo, infermiere della Brigada, che attende l’arrivo dell’ambulanza. © D B( ) d OGR, Torino. Abel Tobías Suárez Olivares, 42 anni, da Santiago de Cuba. La sua forza di affrontare i lunghi e faticosi turni nella zona rossa, senza mai un giorno libero, arriva dalla gratitudine che ha visto nei pazienti e colleghi italiani. © D Bp. 23 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ( ) d OGR, Torino. Il dottor Manuel Emilio Lopez Sifontes, il membro più anziano della Brigada Henry Reeve, ritratto prima di entrare nella zona rossa. 54 anni, originario di Camagüey, medico intensivista, ha diretto l’unità di terapia subintensiva con 34 pazienti. «La sda più grande è stata affrontare l’infezione» ha dichiarato, «perché era tutto nuovo, non l’avevamo mai vista così, prima di arrivare in Italia. Era la più grande epidemia del momento». © D B( ) dOGR, Torino. Victor, il più giovane infermiere della Brigada, all’inizio del suo turno. © D Bp. 28 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . dOGR, Torino. Noel, infermiere della Brigada, appena uscito dalla zona rossa: «Aiutare non è solamente un mio dovere professionale, ma anche parte della mia felicità». © D B

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177p. 29 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . d OGR, Torino. Raul, membro della Brigada cubana, pronto a entrare nella zona rossa. © D Bp. 32 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . dOGR, Torino. Le Ofcine Grandi Riparazioni, aperte nel 1895 per la manutenzione di veicoli ferroviari, erano all’epoca il più grande stabilimento industriale della città. Accolgono l’ospedale tempora-neo dove i medici cubani combattono quotidianamente l’epidemia di -. © D Bp. 35 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . d OGR, Torino. La zona rossa allestita. © A Gp. 37 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ( ) dOGR, Torino. Michele Curto, pronto per iniziare la sua giornata nella zona rossa. © D B( ) d OGR, Torino. Ore 6:00 del mattino, Julio Guerra Izquierdo, reuma-tologo e responsabile logistico durante l’emergenza, entra in zona rossa con Michele, il suo traduttore e ora anche amico. Julio compie oggi 44 anni e ha deciso di passare la giornata in terapia intensiva, con i casi più gravi. © D Bp. 41 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ( ) d OGR, Torino. Adrián e René, i due epidemiologi della Brigada atten-dono un medico italiano all’uscita della zona rossa. Ogni giorno con-trollano tutti gli ingressi e le uscite per evitare ogni errore. Grazie alla loro meticolosità, nessun operatore è stato infettato nell’ospedale tem-poraneo. © D B( ) d OGR, Torino. Un nuovo paziente malato di  sta entrando nella zona rossa. © A Gp. 43 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ( ) dOGR, Torino. Julio Guerra Izquierdo in preparazione per la zona rossa. Adrián, uno dei due epidemiologi della Brigada, gli scrive il nome sul camice, perché i pazienti lo possano riconoscere. © D B( ) dOGR, Torino. Julio Guerra Izquierdo e altri membri della Brigada si peraparno a entrare nella zona rossa. Li aiuta Adrián, uno dei due epidemiologi della Brigada, che controlla attentamente che tutto sia in ordine. © D B

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178p. 45 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . dParco Dora, Torino. L’incontro tra Renato Forte e Abel Tobías Suárez. © M Cp. 46 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . d OGR, Torino. René, uno dei due epidemiologi della Brigada, nel suo lavoro di controllo all’ingresso della zona rossa. © D Bp. 50 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ( ) dOGR, Torino. Abel Tobías Suárez. 42 anni, burlone ed estroverso, è uno dei medici più amati e tra i più citati dai pazienti nelle loro lettere di saluto. © D B( ) dOGR, Torino. Una delle tante lettere di saluto scritte dai pazienti dimessi. «Non trovo le parole, ringrazio tutti perché sono loro i veri eroi». © D Bp. 52 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . dOGR, Torino. Abel Tobías Suárez. 42 anni, burlone ed estroverso, è uno dei medici più amati e tra i più citati dai pazienti nelle loro lettere di saluto. © D Bp. 53 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ( ) dOGR, Torino. Giovanna, un’anziana paziente, che si sente meglio dopo un lungo mese di ricovero per , sta dicendo ad Abel Tobías che nel disegno è sicuramente venuto male. In tutto questo tempo, non lo ha mai visto in volto. © D B( ) d OGR, Torino. Abel Tobías nella doccia ristoratrice dopo uno dei suoi lunghi turni in zona rossa. © D Bp. 55 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ( ) dOGR, Torino. Il dottor Abel Tobías va incontro a un paziente dimesso per salutarlo e mostrarsi nalmente senza maschera di protezione. © A G( ) dOGR, Torino. Un’anziana paziente saluta i medici e gli infermieri che si sono presi cura di lei nei due mesi di ricovero. Finalmente è negativa al  e può essere trasferita. © D B

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179p. 60 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . d OGR, Torino. Un’anziana paziente nella sala TV della zona rossa. A prendersi cura di lei, dal punto di vista medico e psicologico, c’è Silvio, 48 anni, medico di famiglia, arrivato da L’Avana dove lo attendono la moglie e i due gli. «Soprattutto con questo , è fondamentale non fare sentire i pazienti abbandonati». © D Bp. 63 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . d OGR, Torino. Miguel Acebo Rodríguez di Santa Clara, pneumologo della Brigada. © D Bp. 65 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . d OGR, Torino. Martina saluta con un abbraccio gli infermieri che si sono presi cura di lei nel suo mese e mezzo di degenza. Citando un suo amico teologo, ha detto: «Si cura ciò che si ama, si ama ciò che si cura. Con i cubani è stato così, un esperienza di amore, loro hanno avuto la cura di aver cura». © D Bp. 68 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . d OGR, Torino. La paziente Martina mentre parla coi medici. © A Gp. 69 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . d OGR, Torino. La paziente Maria Pia mentre parla coi medici. © A Gp. 72 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ( ) dOGR, Torino. Le Ofcine Grandi Riparazioni, stabilimento industriale di ne Ottocento, nel 2017 vengono adibite a spazi per eventi, cultura e innovazione, sede dell’ospedale temporaneo per i pazienti . © D B( ) d OGR, Torino. Meeting giornaliero tra medici cubani e italiani. «La collaborazione è formidabile» raccontano «e c’è un clima di grande coo-perazione e rispetto reciproco». © D Bp. 78 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . dSacra di San Michele, Val di Susa. Alejandro Bombino Rodríguez men-tre stende la bandiera cubana. Il medico, che a soli 29 anni è alla sua prima missione con la Brigada, si è appena sposato ed è in attesa di un glio. «Non vedo l’ora di tornare da mia moglie» ha detto «ma l’Italia è un Paese lontano per la distanza e vicino per il cuore». © D Bp. 82 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . dOGR, Torino. Il dottor Luis Miguel Osoria Mengana durante una pausa in mensa. © A G

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180p. 86 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . d OGR, Torino. Helena, la paziente numero 100, si prepara a tornare nalmente a casa, dopo quasi due mesi di degenza. Operatrice sanita-ria, si è contagiata sul lavoro e porta gravi conseguenze per la malattia. Di Luis Miguel, il medico chirurgo che l’ha curata, ha detto: «Per me è diventato come un glio». © D Bp. 90 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . dOGR, Torino. Nel giardino del complesso c’è un albero È l’albero della vita. Sui suoi rami, ogni occo bianco simbolizza un paziente guarito e dimesso dall’ospedale, come vuole la tradizione nata in Africa, ai tempi del contagio di Ebola. © D Bp. 94 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . dGruppo Abele, Torino. L’Associazione torinese accoglie e tutela migranti clandestini e altre persone vulnerabili. Uno dei primi compiti della Brigada Henry Reeve è stata la formazione sulla prevenzione e la somministrazione di tamponi. © D Bp. 98 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . dCol del Lys, Val di Susa. Ritratto di Enrique Ubieta Gómez, al Pico Fidel. © D Bp. 102 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . d Parco Dora, Torino. Un momento della grande festa organizzata per celebrare i pazienti guariti dal  e per ringraziare e salutare la Bri-gada cubana di medici e infermieri, prossimi al rientro a casa, dopo più di cento giorni di lavoro. © D Bp. 108 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . dI volti della Brigada. Le immagini, portate al collo, permettono al per-sonale – sempre interamente coperto dagli indumenti di protezione – di essere riconosciuto dai pazienti. © D Bp. 113 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . d Aeroporto di Torino-Caselle. L’arrivo dei medici cubani. © D Sp. 116 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ( ) d Piazza Castello, Torino. Nel cuore della città, i portici deserti in un giorno di lockdown. © D B( ) dMercato di Porta Palazzo, Torino. Un’immagine dello storico mercato cittadino – il più grande a cielo aperto d’Europa – durante i giorni del lockdown. © D B

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181p. 120 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . d OGR, Torino. Victor. Il più giovane infermiere della Brigada cubana, in tenuta da “combattimento” nella zona rossa. © D Bp. 124 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . d OGR, Torino. Albero della vita. © D Bp. 127 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ( ) dOGR, Torino. I colloqui con la psicologa dell’ospedale avvengono attraverso un vetro che separa i pazienti  in isolamento dal resto della struttura. © D B( ) d OGR, Torino. Alcuni pazienti, positivi al -, ricevono visite e supporto da parenti, separati da un vetro di protezione dal contagio. © D Bp. 130 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . dGruppo Abele, Torino. L’Associazione torinese accoglie e tutela migranti clandestini e altre persone vulnerabili. Uno dei primi compiti della Brigada Henry Reeve è stata la formazione sulla prevenzione e la somministrazione di tamponi. © D Bp. 135 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ( ) dOGR, Torino. Durante il loro tempo libero, il personale della Brigada segue i corsi di italiano tenuti all’interno della zona gialla. © D B( ) dOGR, Torino. Un momento di una delle lezioni di italiano per la Brigada Henry Reeve, organizzate all’interno della zona gialla. © D Bp. 138 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ( ) dPalazzo Civico, Torino. Nella Sala Rossa, il dottor Julio Guerra Izquierdo riceve la cittadinanza onoraria dalla sindaca Chiara Appendino. © D B( ) d Palazzo Civico, Torino. Agenti della Polizia Municipale controllano la temperatura al personale della Brigada, all’ingresso della cerimo-nia che conferirà la cittadinanza onoraria a Julio Guerra Izquierdo. © D B

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182p. 140 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . dOGR, Torino. Julio Guerra Izquierdo, reumatologo e responsabile logistico durante l’emergenza, pronto per entrare nella zona rossa, il giorno del suo 44° compleanno. © D Bp. 143 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . dParco Dora, Torino. Julio Guerra Izquierdo arriva in bicicletta alla festa organizzata per celebrare i pazienti curati e salutare la Brigada prima del suo rientro a Cuba. © D Bp. 148 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . dOGR, Torino. Un paziente dell’ospedale temporaneo che deve essere trasferito in un’altra struttura per analisi più speciche. © D Bp. 150 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . d OGR, Torino. René Aveleira (a sinistra) e Adrián Benítez (a destra), Entrambi provenienti da zone rurali di Cuba, i due epidemiologi della Brigada sono i responsabili del controllo sanitario dei lavoratori cubani. In Sierra Leone e Liberia hanno combattuto l’epidemia di Ebola e in altri continenti quelle di colera, malaria e altri disastri naturali. Alle OGR, si alternano con turni di 24 ore. © D Bp. 155 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ( ) d OGR, Torino. Miguel Acebo Rodríguez di Santa Clara. Pneumologo della Brigada. © D B( ) dOGR, Torino. Gli specializzandi italiani: un prezioso contributo al lavoro di squadra. © M Cp. 160 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . dOGR, Torino. È nata una nuova sincera amicizia tra due pazienti: Martina e Giovanna. © D Bp. 164 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . d OGR, Torino. Un paziente chiede una boccata di aria fresca: nell’e-dicio industriale non ci sono nestre né luce solare diretta. L’acciden-tale sfocatura della parte superiore della foto è dovuta a una plastica trasparente usata a protezione della macchina fotograca nella zona rossa. © D B

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183p. 167 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ( ) dParco Dora, Torino. Cittadini cubani e personale della Brigada si rilassano con un mojito al termine della loro missione di oltre cento giorni. Più di 350 persone partecipano alla grande festa di celebra-zione. © D B( ) dParco Dora, Torino. Un toccante momento della festa, quando Ileana Jiménez, volontaria alle OGR, canta accompagnata al pianoforte da un suo paziente. © A Gp. 169 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . dParco Dora, Torino. Durante la festa, il commovente abbraccio tra lo specializzando Umberto e il medico Abel Tobías Suárez Oliva-res. © D Bp. 170 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . dMole Antonelliana, Torino. Il giorno dopo la partenza della Brigada, la Città di Torino dedica una suggestiva illuminazione dell’iconico monu-mento come segno di gratitudine per il lavoro svolto. © D Bp. 172 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . d Un grande lavoro di squadra. Ritratti di tutti coloro che hanno lavo-rato alle OGR durante questa emergenza, tra cui medici cubani e ita-liani, infermieri, specializzandi, cuochi, addetti alla sicurezza e volontari. © A G

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nito di stamparenel mese di ottobre 2021presso Moglia S.r.l.

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